domenica 29 marzo 2015

CinemOssi: Rompicapo a New York, Sils Maria, La famiglia Bélier, Una casa alla fine del mondo

Carissimi, settimana pesantissima, un po’ di film visti nei ritagli di tempo, eccoli a voi. 

Come sempre: CINEMA (visti in sala), TV (visti in salotto), PC (visti in cameretta al PC), BIBLIOTECA (col tablet in biblioteca) e TRENO (col tablet tra una trasferta lavorativa e l’altra). E voi? Cos'avete visto questa settimana?

Rompicapo a New York (Cédric Klapish, 2013) PC

E’ stato il mio film della domenica. Non sapevo esistesse, pur essendo uscito da un bel po’, e non so come abbia potuto sfuggirmi, visto che sono molto legata sia al L’appartamento Spagnolo sia al suo pregevole seguito Bambole Russe. Non sono capolavori, ma hanno avuto il pregio di fotografare la prima generazione di europei cittadini del mondo, decentrati, mutevoli, in qualche modo pionieri di un futuro con lo zaino in spalla, con poche certezze, poco senso pratico, spirito d'avventura e tanta voglia di allargare i confini della propria testa e del proprio cuore. Questo è il terzo film della serie e ritroviamo così, 10 anni dopo, i quarantenni Xavier (ormai scrittore affermato), Wendy, Isabelle e Martine, ex erasmus, ex amici, ex fidanzati, sempre e comunque in qualche modo uniti, dopo i figli e le delusioni sentimentali. Il titolo originale è Casse-tête chinois, rompicapo cinese, e forse sarebbe stato meglio tradurlo letteralmente, anche per rendere la continuità con i precedenti. Si riferisce alla routine complicata delle famiglie non tradizionali, di cui questo film è, di fatto, l’emblema, tra la maternità lesbica ricercata da Isabelle, il divorzio di Xavier da Wendy, il suo riavvicinamento a Martine, il tutto nella cornice di New York, la magmatica città dove niente dura per sempre, intrico di culture e di caos esistenziale. Un film che inizialmente mi ha lasciato un po’ l’amaro in bocca, ma che tutto sommato, ragionato a mente fredda, riprende con coerenza i fili lasciati pendere dal precedente senza grandi concessioni all’autoassolvimento. Però alcune cose davvero non mi sono piaciute: l’inverosimiglianza del fatto che, casualmente, tutti i protagonisti, per una ragione o per l’altra, si trovino a decidere di trasferirsi a New York un po’ come se niente fosse, con tutto ciò che comporta burocraticamente ed emotivamente; ma soprattutto il pessimo-pessimo-pessimo doppiaggio italiano, che cambia completamente la voce di Xavier e rimette a Wendy l’insopportabile accento inglese “alla Stanlio e Ollio” che era stato fortunatamente abbandonato nel secondo film. Sono davvero pentita di non averlo visto in francese.

Sils Maria (Olivier Assayas, 2014) TRENO

Probabilmente vedere questo film mentre andavo e venivo dalla montagne mi ha consentito di apprezzarlo ulteriormente. Confesso di averlo semplicemente adorato. Un film ambizioso e riuscito, magnificamente interpretato. Non vi racconto niente della trama, perché la sceneggiatura è interessantissima e la storia va gustata senza informazioni di sorta. Non perché sia un giallo, ma perché la costruzione è veramente originale, un intreccio inestricabile di vita vera e spettacolo, di finzione scenica e tormenti autentici. Per tematiche mi ha parzialmente ricordato Birdman, ma solo come spirito di fondo. Il finale è inatteso e ambiguo, mi confronterei volentieri con chi l’ha visto per avere pareri in proposito, perché è variamente interpretabile. Juliette Binoche non è mai stata così bella e affascinante, neanche quando, giovanissima, recitava ne “Il danno” e il suo inglese è da ammirare. Kristen Stewart si sta degnissimamente emancipando dal post twilight e ci regala il personaggio più controverso di questa storia controversa. Chloe Moretz non mi piace, l’ho già detto e lo ribadisco. Magari cambierò idea, ma per ora continuo a trovarla insopportabile.

La famiglia Belier (Eric Lartigau, 2014) CINEMA

Mia visione del sabato sera al cinema con gli amici: un film di formazione d’impianto americano, con la classica presa di coscienza di un talento, l’iniziale fiducia, poi la sfiducia/il contrasto dei famigliari, la risalita e il successo. Niente di nuovo sotto il sole, se non fosse che la famiglia della protagonista è integralmente sordomuta e decisamente sopra le righe. Le scene ad alto tasso di commozione, veramente ben concepite, non mancano e i personaggi sono davvero graziosi da guardare interagire e il tema della disabilità uditiva è trattato con autoironia e una buona dose di politicamente scorretto. Come creare un prodotto simpatico e a tratti originale pur su un canovaccio logoro e di apparente sterilità. Louane Emera, l’attrice che interpreta Paula, è una star di talent show musicali francesi e ha vinto il Premio César per il migliore esordio femminile dell’anno (ed è, in effetti, molto convincente). 


 
Una casa alla fine del mondo (Michael Meyer, 2004) TV

Tratto dall’omonimo romanzo di Michael Cunningam (che sfortunatamente non ho letto), l’ho rivisto per la prima volta a quasi dieci anni di distanza dalla prima visione. Niente o quasi mi ricordavo, salvo la tremenda scena in cui muore il fratello del protagonista. Storia di un complicato triangolo amoroso ad alto tasso di tragedia, pur messo in scena con molto tatto. Non so perché, ma il ricordo che ne conservavo era forse migliore. Comunque un ottimo Colin Farrell in un ruolo abbastanza anomalo per lui.


domenica 22 marzo 2015

CinemOssi: Laurence Anyways, Suite Francese, Arianna e Broken Flowers

La vostra figura retorica cinemaniaca questa settimana è provata dal passaggio da mezzo lavoro a due (evviva!), il che ha inevitabilmente influito sulla programmazione. Vediamo insieme come sono andati questi ultimi dieci giorni di visioni. Come sempre: CINEMA (visti in sala), TV (visti in salotto), PC (visti in cameretta al PC), BIBLIOTECA (col tablet in biblioteca) e TRENO (col tablet tra una trasferta lavorativa e l’altra).

Laurence Anyways (Xavier Dolan, 2012) (TRENO-BIBLIOTECA)
Probabilmente è il miglior film visto nelle ultime settimane, mi ha conquistata. Premetto che conosco Xavier Dolan da un po’: classe ’89 (è più giovane di me!), canadese del Québec (quindi bilingue, ma con una preponderanza francofona), ha già girato sei film da regista, di alcuni è anche interprete, e quasi sempre è anche montatore, costumista e responsabile delle scelte musicali per le colonne sonore dei suoi film. A tempo perso recita anche in film altrui ed è doppiatore. Ecco. Di suo ho già visto Les amours imaginaires (notevole, anche se l’ho trovato personalmente lento), Tom à la ferme (decisamente inquietante) e Mommy (suo ultimo film e primo giunto in Italia, per cui ho potuto vederlo doppiato, in sala). Mi mancava Laurence Anyways, suo penultimo, e ora che l’ho visto sono felice di aver aspettato tanto, perché è il suo migliore finora, senza alcun dubbio: è una storia d’amore struggente, che va oltre il sesso e l’orientamento sessuale, e racconta la presa di coscienza della propria transessualità da parte di un uomo, insegnante di letteratura e scrittore. E del complicato, intenso e problematico rapporto con la donna della sua vita, che continuerà ad amare riamato, sia pur con alti e bassi, tra la ricerca di una vita più autentica e il desiderio di essere come tutti. Un film che sembra parlare di una realtà lontanissima ed estrema, ma è in realtà uno specchio impietoso di tutte le nostre gabbie mentali, delle nostre aspirazioni soffocate. E’ un po’ difficile da trovare, ma se riuscite recuperatelo. Io l’ho veramente adorato. Se vi piace Wong Kar Wai troverete qualcosa anche di lui. Visto in lingua originale (francese di base, con qualche infiltrazione di inglese).


Suite Francese (Saul Dibb, 2015) CINEMA
Conosco Irène Némirovsky solo di fama e stranamente, visto che il suo libro Suite Francese, da cui questo film è tratto, io non l’ho mai letto. Dico stranamente perché, da quando fu scoperto nel 2004 (pur essendo stato scritto negli anni ’40), è diventato un best-seller mondiale, forse il libro più venduto della casa editrice Adelphi degli ultimi anni. Forse proprio perché tutti ne parlavano non mi attirava più di tanto. Anche se la storia di contorno è di quelle che restano impresse: Irène Némirovsky sta scrivendo il suo capolavoro, viene deportata e muore ad Auschwitz nel 1942. Cinquant’anni dopo sua figlia riscopre in una borsa il manoscritto incompiuto, che viene pubblicato con il successo che sappiamo. Ecco, questo è l’antefatto, che viene raccontato alla fine del film, prima dei titoli di coda, mentre sullo sfondo scorrono le pagine del manoscritto originale (trovata geniale e meravigliosa).
Una storia profondamente umana, di tragici non detti, della fatica di vivere che incontra la mannaia della storia, quando una guarnigione di soldati nazisti si installa in un paesino della Francia occupata seminando terrore e portando alla luce tutti i nervi scoperti di una comunità in cui ancora vigono equilibri di potere quasi feudali. Tra gli abusi dei notabili locali, quelli dei nazisti e le piccole vendette dei subalterni, un soldato musicista tedesco e una benestante donna francese si scoprono simili e si amano, nonostante tutto. Cast indovinato: bravissima Michelle Williams, fintamente gelido Matthias Schoenaerts, perfetta nella sua aristocratica contraddittorietà Kristin Scott Thomas (nel ruolo della suocera della protagonista, classista e tirannica, ma capace di autentici atti di coraggio). Forse leggermente prolisso in alcuni passaggi, ma per il resto realmente emozionante.

Arianna (Billy Wilder, 1957) PC
Consigliato da un amico cinefilo per fare un confronto con il personaggio interpretato da Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany (che ho recentemente rivisto), ho visto questo film di Billy Wilder, uno dei pochi a me ignoti della sua filmografia (personalmente i miei preferiti sono L’appartamento e Sabrina).  Di difficile reperibilità, mi sono dovuta adattare a guardarlo in spagnolo con i relativi sottotitoli (sono una filologa della domenica, ma tanto lo sapevate già!), il che forse me l’ha fatto percepire con un’aura da telenovela sudamericana che in originale sicuramente non ha, per quanto le situazioni buffe e surreali non manchino. L’ho trovato carino, con trovate interessanti e personaggi sicuramente iconici, dal playboy Gary Cooper al padre investigatore, forse la figura più particolare e divertente. Lontano, però, dagli altri capolavori di Wilder, almeno secondo me.

Broken Flowers (Jim Jarmusch, 2005) TV

Ho visto questo film in salotto con mia mamma, entrambe eravamo inconsapevoli di essere incappate in un film d’autore e non in una commedia brillante. Adoriamo Bill Murrey, che qui è al suo meglio di cinicità e flemma scazoide. In Broken flowers interpreta un ex playboy che viene contattato da una ex amante, la quale gli notifica di aver avuto un figlio da lui e che questo figlio lo sta cercando. Spinto dal vicino di casa col pallino per l’investigazione parte per un viaggio attraverso l’America, visitando quattro donne che potrebbero essere la ex misteriosa e madre di suo figlio. Anticipo che quasi tutte le domande dello spettatore resteranno senza risposta e che forse tutto sommato è meglio così. Mia mamma è rimasta solennemente frustrata da questo film, mentre a me questa struttura lenta, con tanti tempi morti, è piaciuta tantissimo. Una riflessione a tutto tondo su vari cliché della società americana: ognuna di queste donne è un caso paradigmatico, uno stereotipo che viene messo in discussione; abbiamo la madre single hippy, la moglie modello-casalinga disperata, la ex avvocatessa convertita in psicoterapeuta per animali da compagnia e la fattona che vive in roulotte. Il viaggio del protagonista è un un itinerario dell’anima che gli fa comprendere l’assolutezza del presente, la sola cosa reale, dato che il passato è una terra straniere e il futuro è ignoto.  Da recuperare, ammesso che vi piacciano i ritmi cadenzati, i tempi morti e i film privi di risposte. 

mercoledì 11 marzo 2015

CinemOssi: Vizio di forma, Laggies, Ida e 21 grammi

Dunque eccomi, pronta per questa seconda settimana di CinemOssi.

Alle solite etichette CINEMA (film visti in sala), TV (visti sulla tv del soggiorno con i miei famigliari) e PC (visti in camera caritatis nella mia stanza) si aggiunge una quarta etichetta, TRENO (la vostra Ossi in questo periodo lavora in un’altra regione, ragion per cui “pendola” su e giù col treno e usa un tablet da pochi euro sottratto indebitamente alla sua genitrice per poter far fruttare anche cinematograficamente il tempo del viaggio).

E voi? Ditemi nei commenti che cos’avete visto questa settimana.

Vizio di forma (Paul Thomas Anderson, 2014) CINEMA
Ho visto questo film consapevole del rischio che correvo: 148 minuti di una storia tra il grottesco e l’underground che poteva tranquillamente schifarmi o peggio mandarmi in coma. Il regista lo conosco più di fama che per diretta visione (ho visto pezzi vaganti di Magnolia e Il petroliere) e l’autore da cui è tratta la sceneggiatura (Pynchon), l’ho sempre evitato, nonostante sia uno degli autori feticcio di alcuni cari amici. Per cui sono partita con quella curiosità un po’ perversa che ti prende quando sai già che una cosa non ti piacerà, ma la affronti con una certa curiosità di capire il perché. E fu così che invece Vizio di forma, pur non essendo un capolavoro, mi piacque tantissimo, stupendomi ad ogni passaggio, ad ogni dialogo, ad ogni trovata assurda: è underground, è postmoderno, è hippy, è inverosimile, è grottesco, è sopra le righe, è strafatto. Il film come il personaggio protagonista, un detective fattone sonnolento e inaspettatamente argutissimo, magistralmente interpretato da Joaquin Phoenix, uno dei miei attori preferiti di tutti i tempi. Niente, l’ho amato: mi ha stralunata, sorpresa, sconvolta, confusa, illuminata, ma soprattutto divertita, con questo film si ride tantissimo; confesso che non mi sono mai fatta una canna, ma penso che la visione di questo film dia come effetto finale proprio quello. Tantissime le sequenze memorabili: dai dialoghi assolutamente geniali tra il protagonista e il poliziotto Big Foot, il surreale ed esilarante racconto della storia d’amore tra due spacciatori di eroina interpretati da Owen Wilson e Jena Malone, la scena nel centro massaggi cinese, la sequenza amorosa “dilazionata” tra il protagonista e la sua amata, i look improbabili di alcuni personaggi e i loro nomi parlanti. Una lucida e ciondolante confusione in bilico tra realtà e follia. Notine negative solo per qualche perdonabile lungaggine nella parte centrale. Dategli una chance!

Laggies (Lynn Shelton, 2014) TRENO
Quando ho letto nella trama “La ventottenne Megan sembra bloccata in uno stato di adolescenza permanente. Incapace di trovare il lavoro della sua vita, uscendo sempre con gli stessi amici e vivendo con il fidanzato del liceo”, mi sono detta “è la storia della mia vita, devo vederlo”. In realtà, a differenza della sottoscritta, la protagonista è un’adolescente solo per scelta, tuttavia la sua parabola di crescita è una storia di formazione tutt’altro che scontata: aldilà del finale, che è abbastanza telefonato, le riflessioni di Megan non sono banali, l’ansia che pervade la difficile fase del definitivo distacco dalla postadolescenza per accedere all’età adulta (che sempre più si colloca a ridosso dei trenta) è resa verosimilmente, pur senza eccedere in finezza. Così come la necessità di distaccarsi almeno un po’ da ciò che si è sempre avuto, sull’importanza di abbracciare nuove prospettive e costruirsi nuovi occhi per valutare la propria realtà da altri punti di vista. Intrattenimento godibile, ottima visione da treno. Visto in lingua originale.
Due sole domande per i miei lettori: solo io non impazzisco per Chloe Moretz? E soprattutto, che vuol dire Laggies? Qualcuno mi illumini, per piacere piacerissimo.



Ida (Paweł Pawlikowski, 2013) PC
Questo film polacco si è portato a casa la statuetta come miglior film straniero, quest’anno. Una storia intimista, in bianco e nero, protagonista una novizia orfana che viene mandata a conoscere la realtà fuori dal convento affinché sperimenti la vita mondana prima di prendere il velo. La storia di una presa di coscienza sussurrata, complici una zia libertina e depressa, un bel sassofonista e soprattutto un’atroce rivelazione sulla sua infanzia e sulla morte dei genitori. Finale forse prevedibile, ma perfetto. Non è un film che mi abbia bucato il cuore, ma la sua efficacia minimale e l’interpretazione in punta di piedi della protagonista colpiscono.



21 grammi (Alejandro González Iñárritu, 2003) PC
Continua la mia tardiva esplorazione del regista messicano che mi ha colpita con Birdman e fatta innamorate con Amores Perros. Questo 21 grammi è il secondo volume della trilogia della morte, inaugurata appunto da Amores Perros e che con questo film condivide una lunga sequela di disgrazie raccontate in un pastiche temporale che snocciola gli eventi procedendo avanti e indietro sulla linea del tempo, continuamente. Il confronto con il primo, tuttavia, secondo me non regge: pur magnificamente interpretato (Sean Penn, Naomi Watts, Benicio Del Toro, impossibile decretare chi sia il migliore) e diretto con una crudezza che, da materiale che era nel primo film, qui si fa più psicologica, tuttavia non raggiunge la compattezza d’intenti di Amores Perros e alla fine lascia lancinanti e insoddisfatti. Non delusi, ma essenzialmente tristi e irrisolti: il discorso finale della voce over sul valore della vita umana non riesce comunque a cancellare 120 minuti di pura cupezza, morte, destino avverso e pessimismo ben poco eroico. Ok, si chiama trilogia della morte e io non sono certo un’amante delle favolette a lieto fine, però qui si superano i livelli di guardia. Sono maggiormente fiduciosa su Babel.


domenica 8 marzo 2015

Recensione “Shotgun lovesongs” di Nikolas Butler

Quando e dove l’ho comprato?
Letto due settimane fa in ebook (con il mio ebook reader Sony PRS 350)

Quando e dove l’ho letto?
Soprattutto la sera prima di dormire, ma l’ho finito in una biblioteca di recente apertura dove vado a volte il pomeriggio

Che cosa?
Shotgun lovesongs di Nikolas Butler, storia di formazione, un romanzo d’esordio arrivato da oltreoceano in punta di piedi.

Perché?
Mi è stato consigliato dal mio amico Mr Ink (qui la sua recensione), il quale raramente dà 5 stelle a un libro, per cui il suo entusiasmo mi ha incuriosito

Con che cosa?
Insieme a vari tomi di glottodidattica, a una biografia di Leopardi e a un libro di Luca Canali sul latino che salverà il mondo dalla barbarie (forse)


Autore: Nikolas Butler
Titolo: Shotgun Lovesongs
Editore: Marsilio
Traduttore: Claudia Durasanti
Collana: Romanzi e Racconti
Pagine: 317
Prezzo: 18 euro
Anno: 2014
Trama: Henry, Lee, Kip e Ronny sono cresciuti insieme a Little Wing, una cittadina rurale del Wisconsin. Amici fin dall'infanzia, hanno poi preso strade diverse. Henry è rimasto nella fattoria di famiglia e ha sposato il suo primo amore, mentre gli altri se ne sono andati altrove in cerca di fortuna. Ronny è diventato una star del rodeo, Kip ha fatto i soldi in città e il musicista Lee ha trovato la fama ma ha avuto il cuore spezzato. Ora tutti e quattro sono tornati in paese per un matrimonio. Ma vecchie rivalità si insinuano nel clima di festa e nella felicità del ritrovarsi, e il segreto di una moglie minaccia di distruggere un matrimonio e un'amicizia. "Shotgun Lovesongs" è un vibrante inno alle cose che contano davvero nella vita, l'amore e la lealtà, il potere della musica e la bellezza della natura.


RECENSIONE

C’è stato un periodo della mia vita in cui leggevo tantissimi esordienti, forse perché all’epoca ero un’esordiente anch’io: poi quel periodo è passato e ora di esordienti ne leggo solo se, davvero, qualche mio amico fidato mi tira per la giacchetta con sufficiente veemenza.

E’ stato questo il caso e comincio sottolineando che non mi sono affatto pentita del tempo dedicato a questo romanzo, che è una storia corale coinvolgente, d’ambientazione rurale, che avvolge il lettore nel gelido inverno del Wisconsin per poi riscaldarlo con una calda coperta a quadrettoni.
Chi mi conosce sa che amo le storie di formazione, i discorsi sulle varie direzioni dell’esistenza, le riflessioni sulla difficoltà di crescere, le storie di amicizia lunghe, complesse, tormentate e stratificate, eterna dialettica tra il detto e il non detto, tra i comuni ricordi della giovinezza e le scelte difficili.

Ecco, questo romanzo è tutto questo: cinque amici, cinque voci narranti, un paesino rurale (di fantasia) del Wisconsin e il tempo che passa

C’è il solido ed equilibrato agricoltore Henk, lo sbandatissimo Ronny, ex virtuoso del rodeo, l’imprenditore opportunista Kip e soprattutto Lee, che dopo anni di fallimenti è diventato una star del rock mondiale grazie al successo del album intimista (intitolato “Lovesong shotgun”), registrato nella solitudine della sua casa a Little Wing; e poi c’è Beth, moglie di Hank e amica d’infanzia degli altri tre, che è un po’ la chiave di volta per la comprensione delle complicate interconnessioni tra tutti gli amici.

Il romanzo ripercorre, in realtà, la vita di tutta la comunità di Little Wing, partendo dal matrimonio di Kip e procedendo a ritmi sfalsati, avanzando e retrocedendo sulla linea del tempo, mostrandoci i protagonisti in varie fasi della vita, utilizzando come punti focali due particolari occasioni: i matrimoni dei protagonisti e i ritorni di Lee dalle sue tournée mondiali, in un’eterno confronto tra il caos delle metropoli e la contemplazione delle proprie radici nel Wisconsin, luogo dell'anima, l’unico posto in cui la grande star, ubriaca di fama, denaro e donne, riesca a "disintossicarsi". 


Fama e tranquillità, città e campagna, carriera e vita famigliare, rischio e stabilità, individualismo e altruismo, mondo e comunità, amicizia e amore sono le grandi dicotomie archetipiche, le grandi e tradizionalissime opposizioni, su cui si basano le riflessioni di questo libro: tra i momenti di confronto più interessanti c’è sicuramente il matrimonio newyorkese di Lee, occasione topica in cui molti dei nodi cruciali dell’intreccio vengono al pettine, mentre i provincialissimi Beth e Henk girano spaesati per la Grande Mela; e il matrimonio di Ronny a Little Wing, suo perfetto contraltare rurale:

E poi l’intero paese li circondò, formando un circolo gigantesco, e tutti battevano le mani, felici. Felici per quei due sposini improbabili, felici con quel tipo di esaltazione che monta in una comunità sepolta dalla neve e privata della luce del sole dal Giorno del Ringraziamento fino a Pasqua. I bambini erano lì, l’ora della nanna passata da un pezzo, a muoversi in pista esattamente come la musica diceva loro di fare, senza una preoccupazione o una vergogna al mondo. Bambini che corrono verso il tavolo dove le fette di torta nuziale iniziano a sciogliersi e fanno scorrere le dita inzuccherate lungo la glassa spessa. Bambini che tracannano bevande gasate. Che si strofinano gli occhi assonnati e dicono di volerne ancora, che ballano in cerchio tra loro o coi loro genitori. Adolescenti con il broncio nell’angolo che controllano i cellulari, si guardano intorno, vorrebbero unirsi all’azione ma sono imbarazzati, e quando vedono due adulti che ballano e si strusciano in un modo che farebbe arrossire chiunque, persino i ragazzi, pensano: Oh, mio dio, sperando che non si tratti dei loro genitori. Adolescenti, che tirano fuori sigarette rubate dalle borse delle madri, dalle giacche dei padri, che fumano nei bagni o fuori, vicino ai binari del treno. Che si baciano negli angoli tranquilli della vecchia fabbrica con gli occhi grandi, occhi pieni di amore e meraviglia e di nuove antiche sensazioni. E i vecchi seduti sulle sedie che osservano, battono le mani e in alcuni casi stanno senza muoversi come in catatonia, e solo il più piccolo dei sorrisi interrompe le facce piene di rughe. Alcune signore si alzano per raggiungere la mischia ma i vecchietti fanno segno di no, no e no, incrociando braccia e piedi, e a momenti non organizzano un sit-in per terra e si stringono la mano a vicenda per solidarietà. Non ballavo prima e di sicuro non lo farò adesso.

Lo stile è fortemente evocativo, più ancora che descrittivo: imperano le immagini dei tramonti, dei campi di grano, dei cieli nuvolosi, della neve, della meraviglia soffusa delle albe campestri. Qualche recensore ha elogiato la traduzione, che in effetti è sicuramente stata un bel cimento per la traduttrice, tuttavia in più di un punto l’ho sentita scricchiolare.

Note negative di questo romanzo sono riscontrabili nei dialoghi forse troppo cinematografici, che in certi punti fanno sembrare il romanzo quasi una sceneggiatura, e nella presenza capillare di un po’ troppe scene topiche e di un eccessivo lirismo di fondo. Il finale non mi ha troppo convinta, forse è eccessivamente consolatorio.

Vi segnalo che i diritti sono stati acquistati dalla Fox, per cui presto questo libro diventerà presto un film, un film che sono molto curiosa di vedere.

I tecnici della musica hanno ravvisato nell'intreccio degli echi di alcune figure emblematiche della storia del rock americano, ad esempio si dice che la città Little Wing è il nome di una canzone poco nota di Jimi Hendrix: in particolare se ne parla in questa recensione, a cui vi rimando; io, non essendo una conoscitrice profonda del tema in oggetto, non azzardo interpretazioni.

Vero è che la musica trapunta come un fil rouge tutta la storia e pare di sentire in lontananza anche la voce da coyote stanco di Johnny Cash: pur essendo Lee dichiaratamente un cantautore rock-metal nella mia mente si è profilata, non so bene perché, l’immagine malinconica e strascicata di un languido cantante country.


Vi consiglio, dunque, questo romanzo di formazione e atmosfera, che, aldilà dei difetti, è veramente godibile e profondamente immersivo; intrattenimento sì, ma a livelli alti; nonostante la sua confezione “di nicchia” penso possa piacere a un pubblico vasto e variegato.




L'AUTORE
Nickolas Butler è nato a Allentown, in Pennsylvania, e cresciuto a Eau Claire, Wisconsin. Suoi racconti sono apparsi in diverse riviste. Attualmente vive nel Wisconsin con la moglie e i due figli. Questo è il suo primo romanzo, già opzionato per il cinema da Fox Searchlight.

lunedì 2 marzo 2015

CinemOssi #1: Birdman, Timbuktu, L'ombra del sospetto, Amores Perros

Carissimi, inauguriamo questa rubrica cinematografica flash: accanto alle recensioni canoniche, con introduzione, specifiche tecniche e recensione, ho deciso di affiancare una rubrica più estemporanea, a modello di quella dell’amico Mr Ink, per raccontarvi brevemente i film che ho visto durante la settimana, corredati naturalmente dalle mie spassionate impressioni. L’idea è anche che voi mi diciate che cos’avete visto questa settimana e soprattutto se avete apprezzato o meno. E cosa mi consigliate per la prossima settimana, naturalmente. 
La legenda di riferimento è: CINEMA (visto in sala), TV (in soggiorno, con i miei famigliari) e PC (nell'intimità della mia stanzetta, in camera caritatis). 

Birdman (Alejandro González Iñárritu, 2014) CINEMA
Visto in lingua originale in un cinema d’essai, colpevolmente, la sera successiva alla proclamazione degli Oscar (io tifavo per Boyhood di Linklater). I miei amici, nei giudizi, si erano divisi. E’ un film che, non so bene perché, ma mi aspettavo di dover odiare, alcuni me l’avevano presentato come un film fondamentalmente antipatico, abbastanza avulso dalla precedente filmografia di Inarritu. Filmografia che, lo ammetto, io ho cominciato a esplorare proprio con questo film: gli altri li avevo sentiti citare, ma, per un motivo o per l’altro, non mi ci ero ancora cimentata. Ed è stato amore, un amore inatteso quanto deciso: Birdman, pur non essendo un capolavoro, mi ha conquistata. Il suo finto piano sequenza che fintamente occhieggia alla finta vita dei protagonisti è l’apoteosi della decadente e attraente doppiezza di Hollywood, qui ritratta nel suo disperato (e per questo grottesco) tentativo di smarcarsi dalla commercialità, con risultati tanto tristi e patetici da diventare esilaranti. La meta teatralità o la si ama o la si odia e io qui l’ho amata, pur non essendo una patita di Carver. Attori bravissimi, tra tutti ho apprezzato l’intensità di Emma Stone, tossica e scazzata, assolutamente adorabile. Alcune trovate sono degli autentici colpi di genio, come la corsa del protagonista nudo in Time Square. Se ci aggiungiamo che il mio migliore amico attualmente vive a due isolati dalla via in cui è girato il film, che casa sua è visibile in almeno metà delle scene esterne e che a fine dicembre ho visto Les Misérables proprio nel teatro dove sono girati alcuni degli interni…be’…il coefficiente di empatia è assoluto. Ve lo consiglio. L’oscar è più che meritato e, per quanto profondamente abbia apprezzato Boyhood, condivido la decisione dell’Academy di assegnarlo a Birdman. 

Timbuktu (Abderrahmane Sissako 2014) CINEMA
Due parole sulla trama, visto che, a differenza di Birdman, questo film è decisamente meno chiacchierato, anche se comunque è stato candidato all'oscar come miglior film straniero: il controllo degli jihadisti su un villaggio africano raccontato dalla presa di coscienza di una famiglia di pastori nomadi, su cui incombe, imminente, la tragedia. Sullo sfondo (ma neanche troppo) l’accerchiamento della città, la proibizione della musica, l’imposizione della copertura totale per le donne, la progressiva perdita di qualsiasi libertà. Anche questo visto in sala, è stato il mio film del sabato sera. Ad essere sincera mi aspettavo decisamente di più: d’accordo, bella fotografia, storia quanto mai attuale, spaccato interessante che ci catapulta in una parte di mondo che nemmeno noi, ipotetici futuri insegnanti di geografia (molto ipotetici, nel mio caso), abbiamo ben chiara nel nostro immaginario. I campi lunghi e lunghissimi sono suggestivi e veramente indovinati, così come alcuni personaggi iconici (su tutti, la “strega” del villaggio, vestita coloratissima e a testa scoperta, che rifiuta di cedere agli jihadisti). Però i ritmi sono realmente troppo “africani” (il film dura un’ora e mezza, ma la si patisce come fosse il doppio) e la sceneggiatura non convince fino in fondo, ci sono un po' di falle. Occasione mancata. 

L’ombra del sospetto (Richard Eyre, 2008) TV
Ecco, questo film è stato un errore: consigliato da un’amica alla mia augusta genitrice, abbiamo deciso di vederlo, attirati da un cast stellare (Liam Neeson, Laura Linney, -sposati come nel bellissimo Kinsey - Romola Garai, persino Antonio Banderas) e dalla promessa di una trama intricata, un’intersezione tra thriller e dramma (per certi versi la trama, così come la trovate scritta, può ricordare l’interessante Gone Girl). Niente di più azzardato, ahimè: questo film si aggiudica, finora, lo sciacquone d’oro come film più irritante, inutile visto finora quest’anno. Il colpo di scena finale è intuibilissimo e soprattutto tutto ciò che viene prima non ha senso alcuno, neanche alla luce della "rivelazione". Peccato, perché l’idea, ancorché non originale, poteva lasciar presagire qualcosa di quantomeno passabile. Non è buono neanche per l’intrattenimento di grana molto grossa. Se volete vedere un bel film di questo regista, guardate Diario di uno scandalo (con Judi Dench e Cate Blanchett). 


Amores Perros (Alejandro González Iñárritu, 2000)  PC
Ho lasciato per ultimo il mio colpo di questa settimana: mi è stato consigliato da un amico estimatore di Inarritu, alla luce del mio apprezzamento per Birdman. Ho iniziato dalla fine, ho voluto proseguire dall'inizio. Me lo sono guardato in più giorni, diluendolo tra le mie occupazioni quotidiane, per gustarlo tutto con calma, affinché ogni scena arrivasse a me nel momento giusto. E’ un film piuttosto lungo (due ore e quaranta) e procura emozioni forti; a tratti mi ha ricordato Pulp Fiction, soprattutto per la struttura a episodi intrecciati, sfilacciata cronologicamente, ma anche per il linguaggio crudo, per la gran quantità di sangue e morti, per i drammi ineluttabili che racconta. Premetto che non sono un’estimatrice di Tarantino, lo guardo, lo rispetto, riconosco la sua bravura, ma piacermi è un altro discorso: alla fine di un suo film, solitamente dico a chi è con me che ho un irrefrenabile bisogno di spararmi qualcosa di Ivory. Per cui questo genere di film non rientra nelle mie corde. E tuttavia, questo mi ha proprio rubato il cuore: c’è una profondità di intenti, una crudezza di rappresentazioni, un realismo brutale, un’assenza quasi totale di buoni sentimenti che proietta lo spettatore in un limbo senza uscita, è un film che fa domande, invece di fornire risposte. E’ la storia di tanti personaggi, dai manager ai sottoproletari, nel formicaio di Città del Messico, che falliscono nelle loro imprese, che causano o subiscono un destino cui non si possono opporre. Accanto a loro, i cani, co-protagonisti di tutte le vicende e spesso motori inconsapevoli dei tanti topici cambiamenti di direzione della vita dei loro padroni. Tanti di loro muoiono male, spesso peggio degli umani, e non anch'essi lontani dall'innocenza. Il titolo, Amores Perros, vuol dire sia “Amori bastardi” sia “Amori e cani”, volutamente ambiguo. Astenersi solo le anime troppo sensibili. Per tutti gli altri, guardatelo. E’ il primo di una ideale trilogia: seguono, infatti, 21 grammi e Babel, che recupererò presto.