Quest’anno la manifestazione che tanto amo ha dato il meglio
di sé, almeno per quanto sono riuscita a viverla, dato che, al solito, avrei
voluto vedere molti più film rispetto a quelli che il lavoro, l’energia e la
disponibilità di biglietti mi hanno consentito. Ho cercato di spaziare tra
generi, registi e ambientazioni, per nutrire quanto più possibile la mia sete
di visioni altre, di mondi vicini e lontani. Assenti i film italiani, quasi
sempre esauriti o proiettati in orari incompatibili con i miei impegni. In calce
troverete anche una lista di quelli che più mi è spiaciuto perdere. Intanto
vediamo com’è andata con le mie solite recensioncine aneddotiche.
Between Us (USA 2016, Rafael Palacio Illingworth)
Film d'apertura della manifestazione. Indipendente, americano, una sorta di 500 giorni insieme
meno patinato: coppia trentenne forse scoppiata forse no, chissà, tra
avanti-indietro temporali, fotografata negli attimi di crisi più nera, tra tradimenti
cercati senza risultati e ottenuti senza impegno, lavori più o meno frustranti, promesse poco convincenti.
Niente di originale, ma godibile e ben recitato, con personaggi indagati in
profondità e uno sguardo di limpida onestà sul mondo delle relazioni
sentimentali, con il loro sottobosco di imposizioni sociali e voglia di trasgressione.
A quiet passion (UK 2016, Terence Davies)
Avevo grandi aspettative per questo biopic del noto regista inglese su Emily Dickinson, applauditissimo al Reposi, alla presenza dei suoi produttori e con dibattito a seguire: onestamente l’ho trovato davvero troppo pesante e di maniera, un lavoro rigoroso ma freddo, di ricostruzione pedissequa della vita triste e di scarsa soddisfazione della poetessa americana, intrappolata nel puritanesimo profondo che blocca qualsiasi afflato, suo e di chi le sta intorno. Cynthia Nixon, la mitica Miranda di Sex and the city, ce la mette tutta per dare verve a un personaggio riservato quanto inesorabilmente abbattuto dalla vita, ma è visibilmente a disagio in vesti ottocentesche (credo basti la foto a suggerirlo). Troppo insistenti le poesie, recitate in off per l’intera durata del film, fino alla tragica fine. Peccato davvero, perché l’attacco lasciava presagire un ritratto quasi magistrale (la giovane Emily che si ribella con fermezza al personale del collegio dove studia).
Avevo grandi aspettative per questo biopic del noto regista inglese su Emily Dickinson, applauditissimo al Reposi, alla presenza dei suoi produttori e con dibattito a seguire: onestamente l’ho trovato davvero troppo pesante e di maniera, un lavoro rigoroso ma freddo, di ricostruzione pedissequa della vita triste e di scarsa soddisfazione della poetessa americana, intrappolata nel puritanesimo profondo che blocca qualsiasi afflato, suo e di chi le sta intorno. Cynthia Nixon, la mitica Miranda di Sex and the city, ce la mette tutta per dare verve a un personaggio riservato quanto inesorabilmente abbattuto dalla vita, ma è visibilmente a disagio in vesti ottocentesche (credo basti la foto a suggerirlo). Troppo insistenti le poesie, recitate in off per l’intera durata del film, fino alla tragica fine. Peccato davvero, perché l’attacco lasciava presagire un ritratto quasi magistrale (la giovane Emily che si ribella con fermezza al personale del collegio dove studia).
Anche questa visione è stata accompagnata dalla presenza del
cast & crew e dal dibattito: il tutto reso tragico dal fantasma dell’attore
protagonista, dedicatario del film, Anton Yelchin, classe 1989, star dell’ultimo
Star Trek, morto quest’estate in circostanze non del tutto chiare, schiacciato
dalla sua macchina in California (sigh). Un melò ambientato nella magica città
portoghese, ricostruisce in tre tempi una stessa serata in cui ha avuto luogo
un primo (e ultimo) appuntamento tra una determinata ricercatrice francese e un
fragile scavatore inglese. Breve e incisivo, ricco di citazioni soprattutto dai
registi dalla nouvelle vague, girato in 8 mm e in 33 mm a seconda dei momenti;
la terza parte, risolutiva, è senz’altro la migliore. Forse fin troppo erudito e pretenzioso,
una maggiore spontaneità non avrebbe guastato.
Degrado socio-economico nelle periferie di Santiago del
Cile, protagonista un adolescente inquieto e scapestrato che ha lasciato la
scuola e chiede con l’inganno soldi al padre per uscire a fare nottata, tra
alcol, droga e sesso, coi suoi degni compagni. Finché, spingendo la notte più
in là, in un gioco fatto per noia da ubriachi, per uno di loro ci scappa la
terapia intensiva. Visivamente potente, soprattutto nelle scene che fotografano
la perdizione alcolica dei ragazzi, che letteralmente senza neanche rendersene
conto, giocano col corpo di un adolescente in semi-coma fino quasi ad
ucciderlo. Sensi di colpa inesistenti per alcuni, divoranti per gli altri e la difficile
presa di posizione del padre del protagonista. Forse anche qui non ci troviamo
di fronte a qualcosa di del tutto originale, ma la messa in scena è esplicita e
coraggiosa e gli attori molto in parte. Meritatissimo il premio per il migliore
attore al protagonista.
Premio della giuria per questo incredibile film argentino,
uno dei miei preferiti in assoluto di quest’edizione. Grottesco e inaspettato,
con una protagonista le cui opinioni spiccano cristalline nonostante non abbia
più di 3 battute in tutto il film. Cameriera in una villazza altoborghese
appena fuori Buenos Aires, Belèn è divisa tra il noioso e ripetitivo lavoro presso
una famiglia di gente sola e viziata e le tentazioni di coloro che vivono aldilà
della recinzione elettrificata che cinge questo quartiere residenziale: una
comunità di naturisti fricchettoni che praticano l’amore libero in un contesto
di accoglienza del prossimo e pace dei sensi. Inevitabile il conflitto tra le
due parti. Divertente e corrosivo, con un finale scoppiettante. Nutro (credo)
vane speranze ad augurarmi con tutto il cuore che trovi un distributore, ma
meriterebbe di essere visto.
Vetar-Wind (Serbia 2016, Tamara Drakulić)
Un gioiellino balcanico, che più indipendente non si può (e
ci piace), visto al Reposi con cast al completo e la simpaticissima e giovane
regista serba dai capelli rosa. Un racconto di formazione estivo, contemplativo
e rilassante nelle atmosfere (la foce del fiume che divide il Montenegro dall’Albania),
che ci racconta una località di villeggiatura di nicchia, incontaminata, in cui
alle specie di uccelli rari e ai turisti in cerca di pace dei sensi si uniscono
gli hippy che praticano kite surf. Una quindicenne di Belgrado, complessa e
profonda quanto tragicamente rimandata proprio in filosofia (!), vive la sua crisi adolescenziale innamorandosi
a senso unico di un surfista biondo e impegnato, mentre il padre le tace la sua
nuova vita. Il vento che domina il turismo surfistico culla lo spettatore in
uno stato di malinconia placida, che lascia piacevolmente stanchi, come dopo
una giornata estiva passata al sole. Carinissimo. Peccato scoprire dai titoli di coda che l’habitat
affascinante mostrato nel film sia attualmente minacciato dallo scempio
edilizio. Per cui in realtà manca a tutti gli effetti il lieto fine.
Non spendo molte parole per questo film, che mi ha deluso su
tutta la linea, non perché sia particolarmente infame, ma perché non lascia il
segno: il dramma personale di una coppia che ha perso un figlio sfuma sullo
sfondo dei traffici di umani a Bahamas, in uno scenario che ci ricorda quanto
avviene sulle nostre coste, tra scafisti, mafia locale e carrette del mare che
affondano. Il bianco e nero finto indipendente, poi, mortifica inutilmente l’ambientazione.
Wexford Plaza (Canada 2016, Joyce Wong)
Simpatica questa commedia agrodolce canadese “a specchio”,
che ci racconta una storia d’amore (?) tra una tenera guardiana notturna che
cerca appuntamenti su Tinder e un ex barista disoccupato che si barcamena tra una
relazione con una donna e la difficile ricerca di un nuovo lavoro. Una
struttura “doppia” racconta allo spettatore la stessa storia, prima dal punto
di vista di lei e poi da quello di lui, mostrandoci una coppia di esseri umani
che non hanno capito proprio niente l’uno dell’altro, in una incomunicabilità
acuita dai social network e dalla scarsa sobrietà. Storia ben raccontata, per
quanto senza grande audacia dal punto di vista tecnico. Menzione d’onore per la
spigliatezza della regista, presente in sala (una giovanissima cinocanadese).
Questo, di tutti i film del festival, è forse quello che mi
ha indotto maggiormente al sogno e alla riflessione. Due attorucoli parigini
spiantati partono per la Groenlandia in cerca di un momento di fuga dalla vita frenetica:
la scusa ufficiale è una visita al padre di uno dei due, che dopo il divorzio
ha inspiegabilmente scelto una vita di contemplazione presso una piccola
comunità di Inuit. Il confronto con la totale assenza di comfort, con il rigore
delle temperature, il sole che non tramonta mai, la lingua incomprensibile e la
diffidenza della comunità li indurrà a più di un confronto, tra di loro e con
se stessi. Scene davvero potenti, come quelle della caccia alla foca (astenersi
vegani) rimangono impresse nella memoria. Un esempio di un cinema che non
rinuncia a mostrare l’altro, anche e soprattutto quando l’altro è a noi
incomprensibile. Dello stesso regista avrei voluto vedere Marie et les
naufragès, ma erano finiti i biglietti.
Turn left, turn right (Cambogia 2016, Douglas Seok)
Peggior film della manifestazione, tra quelli che ho visto:
60 minuti di inutile noia dietro a una ragazza cambogiana che vivacchia tra l'assistenza al
padre invalido e una serie di lavori che perde per scarsa convinzione. Salvo la
scena della costruzione di un sidecar sdraiato per il padre. Peccato, era il mio primo film cambogiano, avevo alte aspettative.
Il bello del TFF è che puoi trovarti inaspettatamente anche
davanti a un film molto classico, di quelli che puoi facilmente trovare al
cinema in tutte le stagioni, con un surplus di atmosfere e cura tecnica: questo
è un thrillerone americano come si deve, con tanto di ricordi sfocati di un’infanzia
di abusi, la rimozione e la riconquista del passato tramite il soggiorno nella
casa avita rurale. Ambienti claustrofobici che virano all’horror in alcuni
punti e una protagonista molto convinta, è Abbie Cornish, che ci ricordiamo
perché fu la fidanzata del poeta John Keats in Bright Star di Jane Campion.
Niente di eccezionale, ma un bel thriller.
The donor (Cina 2016, Qiwu Zang)
Questo film ha meritatamente vinto questa edizione del
Festival: io sono molto felice di averlo visto e ancora di più di aver
beneficiato (in qualità di sua casuale vicina di posto) delle opinioni in
merito del maestro Nanni Moretti, che alla fine raccontava cose interessanti
alla sua vicina (e io ovviamente origliavo). Probabilmente si tratta,
oggettivamente, del film più valevole della manifestazione, sia a livello
tecnico che per coraggio e intensità della storia. Un popolano desideroso di
riscatto sociale ed economico vuole vendere un rene a un ricco magnate, che ne
ha bisogno per salvare la sorella da morte certa; questo l’inizio di una
persecuzione che finirà nel peggior modo possibile, in un’amarezza davvero
insopportabile. Disagio socio-economico versus potere finanziario in una lotta
per la vita all’ultimo respiro (letteralmente) per ristabilire una democrazia
della morte. Non posso raccontare cosa ne pensa il buon Nanni senza spoilerare,
per cui mi esimo. Ma spero che, alla luce della vittoria, questo film trovi un
distributore italiano (e in questo caso sono più ottimista).
Cosa mi sono persa (sigh): Nome di battaglia donna (film italiano
sulle donne nella resistenza), I figli della notte (thriller lynciano esordio
del regista Andrea De Sica, fischiatissimo al festival, ma io ero curiosa), il
già citato Marie et le naufragés e…tanti altri, troppi.
E voi? Cos’avete visto? E soprattutto, cos’avete amato?
Ditemelo nei commenti, o su FB. E se non siete stati al TFF ditemi quale dei
film che vi ho raccontato vi ispira di più!