giovedì 1 dicembre 2016

Reportage ossimorico del Torino Film Festival 2016


Quest’anno la manifestazione che tanto amo ha dato il meglio di sé, almeno per quanto sono riuscita a viverla, dato che, al solito, avrei voluto vedere molti più film rispetto a quelli che il lavoro, l’energia e la disponibilità di biglietti mi hanno consentito. Ho cercato di spaziare tra generi, registi e ambientazioni, per nutrire quanto più possibile la mia sete di visioni altre, di mondi vicini e lontani. Assenti i film italiani, quasi sempre esauriti o proiettati in orari incompatibili con i miei impegni. In calce troverete anche una lista di quelli che più mi è spiaciuto perdere. Intanto vediamo com’è andata con le mie solite recensioncine aneddotiche.

Between Us (USA 2016, Rafael Palacio Illingworth)
Film d'apertura della manifestazione. Indipendente, americano, una sorta di 500 giorni insieme meno patinato: coppia trentenne forse scoppiata forse no, chissà, tra avanti-indietro temporali, fotografata negli attimi di crisi più nera, tra tradimenti cercati senza risultati e ottenuti senza impegno, lavori più o meno frustranti, promesse poco convincenti. Niente di originale, ma godibile e ben recitato, con personaggi indagati in profondità e uno sguardo di limpida onestà sul mondo delle relazioni sentimentali, con il loro sottobosco di imposizioni sociali e voglia di trasgressione.

A quiet passion (UK 2016, Terence Davies)
Avevo grandi aspettative per questo biopic del noto regista inglese su Emily Dickinson, applauditissimo al Reposi, alla presenza dei suoi produttori e con dibattito a seguire: onestamente l’ho trovato davvero troppo pesante e di maniera, un lavoro rigoroso ma freddo, di ricostruzione pedissequa della vita triste e di scarsa soddisfazione della poetessa americana, intrappolata nel puritanesimo profondo che blocca qualsiasi afflato, suo e di chi le sta intorno. Cynthia Nixon, la mitica Miranda di Sex and the city, ce la mette tutta per dare verve a un personaggio riservato quanto inesorabilmente abbattuto dalla vita, ma è visibilmente a disagio in vesti ottocentesche (credo basti la foto a suggerirlo). Troppo insistenti le poesie, recitate in off per l’intera durata del film, fino alla tragica fine. Peccato davvero, perché l’attacco lasciava presagire un ritratto quasi magistrale (la giovane Emily che si ribella con fermezza al personale del collegio dove studia).

Porto (Brasile 2016, Gabe Klinger)
Anche questa visione è stata accompagnata dalla presenza del cast & crew e dal dibattito: il tutto reso tragico dal fantasma dell’attore protagonista, dedicatario del film, Anton Yelchin, classe 1989, star dell’ultimo Star Trek, morto quest’estate in circostanze non del tutto chiare, schiacciato dalla sua macchina in California (sigh). Un melò ambientato nella magica città portoghese, ricostruisce in tre tempi una stessa serata in cui ha avuto luogo un primo (e ultimo) appuntamento tra una determinata ricercatrice francese e un fragile scavatore inglese. Breve e incisivo, ricco di citazioni soprattutto dai registi dalla nouvelle vague, girato in 8 mm e in 33 mm a seconda dei momenti; la terza parte, risolutiva, è senz’altro la migliore. Forse fin troppo erudito e pretenzioso, una maggiore spontaneità non avrebbe guastato.

Jesùs (Cile 2016, Fernando Guzzoni)
Degrado socio-economico nelle periferie di Santiago del Cile, protagonista un adolescente inquieto e scapestrato che ha lasciato la scuola e chiede con l’inganno soldi al padre per uscire a fare nottata, tra alcol, droga e sesso, coi suoi degni compagni. Finché, spingendo la notte più in là, in un gioco fatto per noia da ubriachi, per uno di loro ci scappa la terapia intensiva. Visivamente potente, soprattutto nelle scene che fotografano la perdizione alcolica dei ragazzi, che letteralmente senza neanche rendersene conto, giocano col corpo di un adolescente in semi-coma fino quasi ad ucciderlo. Sensi di colpa inesistenti per alcuni, divoranti per gli altri e la difficile presa di posizione del padre del protagonista. Forse anche qui non ci troviamo di fronte a qualcosa di del tutto originale, ma la messa in scena è esplicita e coraggiosa e gli attori molto in parte. Meritatissimo il premio per il migliore attore al protagonista.

Los decentes (Argentina 2016, Lukas Valenta Rinner)
Premio della giuria per questo incredibile film argentino, uno dei miei preferiti in assoluto di quest’edizione. Grottesco e inaspettato, con una protagonista le cui opinioni spiccano cristalline nonostante non abbia più di 3 battute in tutto il film. Cameriera in una villazza altoborghese appena fuori Buenos Aires, Belèn è divisa tra il noioso e ripetitivo lavoro presso una famiglia di gente sola e viziata e le tentazioni di coloro che vivono aldilà della recinzione elettrificata che cinge questo quartiere residenziale: una comunità di naturisti fricchettoni che praticano l’amore libero in un contesto di accoglienza del prossimo e pace dei sensi. Inevitabile il conflitto tra le due parti. Divertente e corrosivo, con un finale scoppiettante. Nutro (credo) vane speranze ad augurarmi con tutto il cuore che trovi un distributore, ma meriterebbe di essere visto.

 Vetar-Wind (Serbia 2016, Tamara Drakulić)
Un gioiellino balcanico, che più indipendente non si può (e ci piace), visto al Reposi con cast al completo e la simpaticissima e giovane regista serba dai capelli rosa. Un racconto di formazione estivo, contemplativo e rilassante nelle atmosfere (la foce del fiume che divide il Montenegro dall’Albania), che ci racconta una località di villeggiatura di nicchia, incontaminata, in cui alle specie di uccelli rari e ai turisti in cerca di pace dei sensi si uniscono gli hippy che praticano kite surf. Una quindicenne di Belgrado, complessa e profonda quanto tragicamente rimandata proprio in filosofia (!),  vive la sua crisi adolescenziale innamorandosi a senso unico di un surfista biondo e impegnato, mentre il padre le tace la sua nuova vita. Il vento che domina il turismo surfistico culla lo spettatore in uno stato di malinconia placida, che lascia piacevolmente stanchi, come dopo una giornata estiva passata al sole. Carinissimo. Peccato scoprire dai titoli di coda che l’habitat affascinante mostrato nel film sia attualmente minacciato dallo scempio edilizio. Per cui in realtà manca a tutti gli effetti il lieto fine. 

Live cargo (USA 2016, Logan Sandler)
Non spendo molte parole per questo film, che mi ha deluso su tutta la linea, non perché sia particolarmente infame, ma perché non lascia il segno: il dramma personale di una coppia che ha perso un figlio sfuma sullo sfondo dei traffici di umani a Bahamas, in uno scenario che ci ricorda quanto avviene sulle nostre coste, tra scafisti, mafia locale e carrette del mare che affondano. Il bianco e nero finto indipendente, poi, mortifica inutilmente l’ambientazione.  

Wexford Plaza (Canada 2016, Joyce Wong)
Simpatica questa commedia agrodolce canadese “a specchio”, che ci racconta una storia d’amore (?) tra una tenera guardiana notturna che cerca appuntamenti su Tinder e un ex barista disoccupato che si barcamena tra una relazione con una donna e la difficile ricerca di un nuovo lavoro. Una struttura “doppia” racconta allo spettatore la stessa storia, prima dal punto di vista di lei e poi da quello di lui, mostrandoci una coppia di esseri umani che non hanno capito proprio niente l’uno dell’altro, in una incomunicabilità acuita dai social network e dalla scarsa sobrietà. Storia ben raccontata, per quanto senza grande audacia dal punto di vista tecnico. Menzione d’onore per la spigliatezza della regista, presente in sala (una giovanissima cinocanadese).

Le Voyage au Groenland (Francia 2016, Sébastien Betbeder)
Questo, di tutti i film del festival, è forse quello che mi ha indotto maggiormente al sogno e alla riflessione. Due attorucoli parigini spiantati partono per la Groenlandia in cerca di un momento di fuga dalla vita frenetica: la scusa ufficiale è una visita al padre di uno dei due, che dopo il divorzio ha inspiegabilmente scelto una vita di contemplazione presso una piccola comunità di Inuit. Il confronto con la totale assenza di comfort, con il rigore delle temperature, il sole che non tramonta mai, la lingua incomprensibile e la diffidenza della comunità li indurrà a più di un confronto, tra di loro e con se stessi. Scene davvero potenti, come quelle della caccia alla foca (astenersi vegani) rimangono impresse nella memoria. Un esempio di un cinema che non rinuncia a mostrare l’altro, anche e soprattutto quando l’altro è a noi incomprensibile. Dello stesso regista avrei voluto vedere Marie et les naufragès, ma erano finiti i biglietti.

Turn left, turn right (Cambogia 2016, Douglas Seok)
Peggior film della manifestazione, tra quelli che ho visto: 60 minuti di inutile noia dietro a una ragazza cambogiana che vivacchia tra l'assistenza al padre invalido e una serie di lavori che perde per scarsa convinzione. Salvo la scena della costruzione di un sidecar sdraiato per il padre. Peccato, era il mio primo film cambogiano, avevo alte aspettative. 

Lavender (USA 2016, Ed Gass-Donnelly)
Il bello del TFF è che puoi trovarti inaspettatamente anche davanti a un film molto classico, di quelli che puoi facilmente trovare al cinema in tutte le stagioni, con un surplus di atmosfere e cura tecnica: questo è un thrillerone americano come si deve, con tanto di ricordi sfocati di un’infanzia di abusi, la rimozione e la riconquista del passato tramite il soggiorno nella casa avita rurale. Ambienti claustrofobici che virano all’horror in alcuni punti e una protagonista molto convinta, è Abbie Cornish, che ci ricordiamo perché fu la fidanzata del poeta John Keats in Bright Star di Jane Campion. Niente di eccezionale, ma un bel thriller.




The donor (Cina 2016, Qiwu Zang)
Questo film ha meritatamente vinto questa edizione del Festival: io sono molto felice di averlo visto e ancora di più di aver beneficiato (in qualità di sua casuale vicina di posto) delle opinioni in merito del maestro Nanni Moretti, che alla fine raccontava cose interessanti alla sua vicina (e io ovviamente origliavo). Probabilmente si tratta, oggettivamente, del film più valevole della manifestazione, sia a livello tecnico che per coraggio e intensità della storia. Un popolano desideroso di riscatto sociale ed economico vuole vendere un rene a un ricco magnate, che ne ha bisogno per salvare la sorella da morte certa; questo l’inizio di una persecuzione che finirà nel peggior modo possibile, in un’amarezza davvero insopportabile. Disagio socio-economico versus potere finanziario in una lotta per la vita all’ultimo respiro (letteralmente) per ristabilire una democrazia della morte. Non posso raccontare cosa ne pensa il buon Nanni senza spoilerare, per cui mi esimo. Ma spero che, alla luce della vittoria, questo film trovi un distributore italiano (e in questo caso sono più ottimista).

Cosa mi sono persa (sigh): Nome di battaglia donna (film italiano sulle donne nella resistenza), I figli della notte (thriller lynciano esordio del regista Andrea De Sica, fischiatissimo al festival, ma io ero curiosa), il già citato Marie et le naufragés e…tanti altri, troppi.

E voi? Cos’avete visto? E soprattutto, cos’avete amato? Ditemelo nei commenti, o su FB. E se non siete stati al TFF ditemi quale dei film che vi ho raccontato vi ispira di più!

sabato 7 maggio 2016

Recensione: "Il delitto del conte Neville" di Amélie Nothomb

Dove e quando l'ho comprato?
La casa editrice Voland, come ogni anno, me l'ha gentilmente inviato.

Dove e quando l'ho letto?
Tra l'archivio di stato e la biblioteca

Che cosa?
Il delitto del conte Neville di Amélie Nothomb. Non sarebbe primavera senza il nuovo libro di Amélie. Come a Parigi non sarebbe autunno (NB.in Francia la Nothomb è una superstar e traina tutta la rentrée letteraria settembrina dagli anni '90). 

Perché?
Perché negli anni Amélie non ha mai smesso di sorprendermi: non perdo un suo romanzo da quando la scoprii, da adolescente, una quindicina d'anni fa. 

Con che cosa?
Il racconto dei racconti di Basile e svariati volumi di grammatica storica.


Autore
: Amélie Nothomb
Titolo: Il delitto del conte Neville
Editore: Voland
Traduttore: Monica Capuani
Collana: Amazzoni
Pagine: 93
Prezzo: 14 euro
Anno: 2016
TramaIl conte Neville, aristocratico belga decaduto, è costretto a vendere il suo magnifico castello nelle Ardenne. Prima di uscire di scena, per celebrare l’onore della famiglia, decide di organizzare una lussuosissima festa di addio. Ma nei giorni che precedono l’evento Sérieuse, la sua figlia più giovane, fugge di casa e si nasconde nella foresta. A trovarla è una misteriosa chiaroveggente e sarà costei, dopo aver avvertito il conte del ritrovamento della ragazza, a fargli una spaventosa profezia: “Durante il ricevimento, lei ucciderà un invitato.” Il conte Neville, ossessionato da queste parole, dovrà trovare un modo per sfuggire al suo tragico destino. Riprendendo Oscar Wilde e la tragedia greca Amélie Nothomb gioca con la letteratura e con l’intelligenza dei lettori, fornendo come al solito una sua personale versione dei miti.

RECENSIONE

Ammetto senza vergogna che mi aspettavo di tutto (e in negativo) da quest'ultima fatica nothombiana: io amo Amélie, com'è noto, ma ultimamente i suoi romanzi di pura fantasia mi avevano spesso delusa o quantomeno mai lasciata completamente soddisfatta. In modo particolare penso a Causa di forza maggiore, Viaggio d'inverno e Barbablù, lontani anni luce dai primissimi capolavori L'igiene dell'assassino e Mercurio; differentemente dal filone autobiografico, che invece ha visto un'evoluzione molto positiva.

Un'ambientazione polverosa, aristocratica, staticamente ansiogena, non prometteva granché e anche le recensioni presenti in rete e sui giornali si dimostravano particolarmente impietose, a questo giro. 
E invece, ancora una volta, l'ordigno a orologeria scatta e colpisce nel segno, almeno per quanto riguarda i miei "sentiti" (parola particolarmente importante, probabile calco di un termine psicanalitico di moda in Francia, che l'autrice sbeffeggia a più riprese nel corso della narrazione).

Amélie mette in scena il dramma tragicomico di un aristocratico belga decaduto al tramonto di una stagione di gloria da ospite impeccabile alle prese con l'organizzazione dell'ultimo garden party nella sua tenuta avita crocifissa dalle ipoteche e ormai prossima alla vendita; un canto del cigno che si tinge di noir quando la capricciosa figlia adolescente fugge di casa e la mistica che la ritrova, tremante di freddo nel bosco, fa al conte una profezia di morte, notificandogli che nel corso della festa lui ucciderà un invitato. Seguiranno per il protagonista notti di insonne turbamento, un perenne rinvangare un passato fintamente glorioso, in realtà lastricato di atroci sofferenze, e soprattutto un dialogo al vetriolo con la capricciosa ultimogenita, geniale quanto nevrotica, che vive avvolta in un totale nichilismo.

La risoluzione dell'intrigo è, come spesso in Amélie, la più semplice e forse proprio per questo la meno prevedibile, celata tra le righe della profezia.

Un librino che si legge in mezzo pomeriggio e, al solito, condensa in un impasto denso quanto lieve tanti stilemi cari all'autrice: il sadomasochismo psicologico (nel rapporto problematico tra il conte e l'ultimogenita Seriéuse), il declino inerosaribile di antichi fasti (e anche qui la vanesia Nothomb non rinuncia a citare la sua famiglia tra le più nobili del Belgio, mostrandoci che conosce bene l'ambiente di cui parla), l'ipocrisia sociale, la fame (patita dal conte che, nonostante i banchetti e l'apparente sfarzo famigliare, ha in realtà vissuto un'infanzia di stenti e malnutrizione per ragioni che è interessante conoscere), le citazioni dirette e indirette (Oscar Wilde, la tragedia greca e i racconti d'inverno di Karen Blixen) la veggenza e la predestinazione, e soprattutto la visione estrema di vita, morte ed emozioni che dimostrano gli adolescenti.
Non voglio dire altro sulla trama, per non rovinare il gusto ai lettori, ma ho trovato la costruzione estremamente avvincente e funzionale nella sua linearità.
Invece ho percepito come del tutto accessoria la presenza dei due bellissimi e narrativamente inutili fratelli di Sérieuse, il cui unico scopo è avere nomi (Electre e Oreste) che evocano la tragedia greca. 


Figlia di diplomatici, è nata a Kobe, in Giappone, nel 1967. Nel 1992 viene pubblicato in Francia da Albin Michel il suo primo romanzo, Igiene dell’assassino, che diventa il caso letterario dell’anno: 100.000 copie vendute, due riduzioni teatrali, un film. Nelle edizioni tascabili lo stesso romanzo vende altre 125.000 copie. Da quel momento pubblica un romanzo all'anno, fedele alla stessa casa editrice, Albin Michel, come in Italia è fedele alla Voland. Il romanzo Stupore e tremori (Albin Michel 1999) ha venduto in Francia 400.000 copie. Tradotta in 15 lingue, ha ottenuto numerosissimi premi letterari tra cui il Grand Prix du roman de l’Académie Française e il Prix Internet du Livre per Stupore e tremori (da cui è stato tratto anche un film diretto da Alain Corneau), il Prix de Flore per Né di Eva né di Adamo e due volte il Prix du Jury Jean Giono per Le Catilinarie e Causa di forza maggioreSin dal suo primo romanzo Amélie Nothomb ha imposto uno stile: sguardo incisivo, spesso impietoso e crudele, umorismo fulmineo, storie originali che ruotano intorno a sentimenti eterni.

sabato 12 dicembre 2015

Giveaway di Natale: Andorra di Peter Cameron #LetteraturaInPalio (CHIUSO)

Visto che a Natale siamo tutti più buoni, ho pensato di mettere in palio per voi l'ultimo libro di Peter Cameron (l'ultimo edito in Italia, per la verità, secondo in patria). Si tratta di uno dei miei autori contemporanei preferiti in assoluto: perfetto in Quella sera dorata come in Un giorno questo dolore ti sarà utile e strepitoso anche in Coral Glynn. Questo è un libro assai diverso dagli altri, in quanto, per certi versi, noir-mistery. Sono molto curiosa di confrontarmi con altri in merito, è anche per questo che la mia scelta è caduta proprio su Andorra
Di seguito troverete la trama e le regole del giveaway. Scade il 20 dicembre!

Autore: Peter Cameron 
Titolo: Andorra
Editore: Adelphi
Pagine: 236
Prezzo: 18 euro 
Anno: 2014
Lasciatosi alle spalle San Francisco insieme a quel che gli era necessario lasciare – «cioè tutto» –, Alex Fox approda a La Plata, la soleggiata capitale del minuscolo Sta­to di Andorra, dove spera di poter cominciare una nuova vita. E la scelta sembra quanto mai azzeccata: «Chiunque viva ad Andorra viene considerato suo cittadino» recita la Costituzione, e in effetti sono in molti a mostrarsi subito ansiosi di conquistare le simpatie del nuovo arrivato. Come Mrs Reinhardt, anziana ospite del­l'unico albergo in città, che chiede ad Alex di leggere per lei; o Sophonsobia, matrona della potente famiglia Quay, che certo non sarebbe contraria a una liaison tra lui e l'amabile figlia Jean; o i coniugi Dent, che ben presto lo mettono a parte dei lati meno limpidi del loro matrimonio. Approfondendo via via le sue nuove conoscenze, Alex si renderà conto di non essere il solo a fuggire dal proprio passato, finché, sempre più coinvolto nella vita sotterranea di Andorra, scoprirà «le stanze grigie e senza finestre dietro al favoloso scenario». E quando dalle acque del porto di La Plata emergeranno due cadaveri con chiari segni di morte violenta, lui sarà fra i principali indiziati: la tragedia, è fatale, non può essere trascesa, né cancellata o dimenticata. Già in questo romanzo Peter Cameron si mostra a proprio agio nell'universo narrativo che ha affascinato i lettori di Coral Glynn, e perfettamente padrone di quella tecnica del progressivo disvelamento che non mancherà, anche qui, di tenerci avvinti alle sue pagine – sino al colpo di scena finale.

Regole per il giveaway:
- essere follower del blog (tastino in alto a destra)
- condividere l'iniziativa sui social che preferite (non controllerò, per cui fatelo solo se vi fa piacere)
- lasciarmi nei commenti la vostra mail, un'opinione su Cameron (cosa vi è piaciuto della sua produzione, perché vi piace o, se non lo conoscete, che cosa vi attira) e anche un pensiero personale su che libro vi piacerebbe ricevere quest'anno a Natale

Estrazione:
Vince Gloria Spignoli!!! Complimenti!

venerdì 4 dicembre 2015

Reportage CinemOssi al TFF 2015: Suffragette, Antonia, Brooklyn, Just Jim, John From, etc

Carissimi,
innanzitutto mi scuso per l’assenza: negli ultimi quattro mesi la mia vita è stata decisamente complicata, tra un viaggio a New York, una supplenza di italiano molto full time in un professionale per stilisti e l’inizio di un dottorato di ricerca in linguistica. Spero vivamente di riuscire a conciliare tutti i miei impegni in modo da ritagliarmi del tempo anche per continuare con i miei articoli. Dunque, nell’ultima settimana ho avuto modo di vedere un po’ di film al Torino Film Festival di quest’anno: stavolta non ho fatto l’addetta stampa, ma sono riuscita comunque a vedere ben sette film.
Anzi, diciamo sei e mezzo. Ora scoprirete perché. La mia impressione generale è stata più che positiva: davvero parecchi dei film che ho visto hanno soddisfatto e in certi casi persino superato le mie aspettative.


Suffragette (Sarah Gavron, UK, 2015)
Grande attesa per questo film, che, pur rilevatosi assai diverso da come me l'aspettavo, si è fatto apprezzare proprio per queste particolarità: la storia principale segue la presa di coscienza di una placida sottoproletaria, dapprima scettica di fronte al suffragismo, lavoratrice in fabbrica dall’età di sette anni, sposata con un uomo altrettanto comune e madre di un bimbo. Già il movimento suffragista è tema ben raro da trovare nei film, ma che la prospettiva adottata sia così orgogliosamente “dal basso” lo rende davvero un unicum nel suo genere: il buon senso, l’altruismo, la tenacia della protagonista (una sciatta quanto coinvolta Carey Mulligham) rendono lo spettatore partecipe del suo dramma umano, della forza della sua convinzione nel cercare, per tentativi e con difficoltà, un nuovo modo, più consapevole, di essere donna, moglie e madre nella spinosa Inghilterra dell’inizio del XX secolo. I titoli di coda ci ricordano che il diritto di voto è ancora utopia in tante nazioni nella terra (e che in Svizzera le donne votano solo dal 1977!!!). Cameo per Meryl Streep nei panni della vera femminista Emmeline Pankhurst.


Antonia (Ferdinando Cito Filomarino, Italia, 2015)
Ecco, questo è il film del festival nei confronti del quale nutrivo meno aspettative, forse perché l’accoppiata “biopic” e “italiano” molto di rado produce qualcosa di più che scolastico o scontato, specie se la vita raccontata è quella di un letterato. Invece vi anticipo che questo si è rivelato il miglior film della rassegna, almeno tra quelli che ho visto io. Qui protagonista è la poetessa Antonia Pozzi, milanese, perlopiù ignota anche agli addetti ai lavori: sulle antologie il suo nome ricorre solo in quanto contemporanea e amica di Vittorio Sereni. Ha avuto una vita breve, illuminata dal fuoco della poesia e scossa da violenti attacchi di male di vivere che l’hanno poi portata al suicidio (avvenuto a 26 anni), ma per il resto, nelle sue esperienze, possiamo riconoscerci un po’ tutti: il liceo classico, l’amore per il suo professore di lettere, poi l’università, la tesi su Flaubert, i primi incarichi da insegnante, l’attaccamento ai suoi compagni di studi, gli amori non corrisposti. Una vita piccola, vissuta in punta di piedi tra la sua grande casa di Milano e la pace delle montagne sopra Lecco. Un film fine, coraggioso, con una fotografia incantevole e una regia davvero elegante (oltreché giovanissima, classe 1986): punti di vista bizzarri e geniali, come dialoghi sentiti di lontano, dietro le porte a vetri del soggiorno di Antonia, conversazioni allo specchio e un indugiare sempre delicato sull’intimità più profonda della protagonista, sorpresa a fare autoerotismo come a leggere l’Odissea in greco. Il cast di attori non noti, ma tutti professionisti del teatro, è una scelta vincente per cui questo progetto meriterebbe applausi a prescindere dal risultato, che è in ogni caso davvero pregevole. Non vedo l’ora che esca in chiaro (sperando che tale miracolo abbia luogo e presto) per portarci gli amici, letterati e non.


Me and Earl and the dying girl (Alfonso Gomez-Rejon, USA, 2015)
Una commedia indipendente giovanilistica americana “che più Sundance di così non si può”: scorretta, originale, fresca e ben recitata. C’è pure un cancro di mezzo, ma non è un film sul cancro e sugli adolescenti che muoiono, piuttosto sul saper far fruttare il tempo e sull’imparare a incanalare la propria atipicità in un percorso di crescita che sviluppi l’intelligenza emotiva, su come restare speciali senza diventare per forza degli apatici anaffettivi. Alcune scene sono esilaranti e i personaggi si distinguono tutti per eccentricità, forse fin troppo. In ogni caso decisamente godibile.

Uns geht es gut (Henri Steinmetz, Germania, 2015)
Solitamente, specie se ho pagato un biglietto specifico, mando giù di tutto e resisto fino alla fine. Qui non ce l’ho fatta, sono uscita dopo un’oretta. I dialoghi sono agonizzanti e perlopiù insensati, la trasgressione fine a se stessa dei giovani protagonisti (la cui occupazione è bighellonare senza meta facendo cose a metà tra lo schifoso e l’inutile, ma più sul versante dell’inutile) è a dir poco irritante. Dominano scene al rallentatore, inquadrature su bicchieri che cadono, ragazzi che orinano, grugniti in una lingua che del tedesco ha poco. Un tentativo poraccio di teutonicamente scimmiottare Arancia Meccanica, fallito.

Just Jim (Craig Roberts, UK, 2015)
Opera prima del giovane Craig Roberts, già protagonista del carinissimo Submarine, che qui dirige se stesso e Emile Hirsch in una commedia adolescenziale surreale ambientata in Galles: il protagonista è un recluso sociale, di una sfigataggine davvero mai vista sullo schermo. La sua triste vita solitaria, ritratta nella prima parte del film, assume dimensioni tragicomiche che sfiorano l’epicità in alcune sequenze (da antologia quella in cui i genitori sbagliano il numero di anni che il figlio sta per compiere e per giunta nessuno si presenta alla sua festa di compleanno). Ancora più divertente e folle nella parte centrale, con la comparsa di un ragazzo americano “cool”, interpretato da Emile Hirsch, che cerca di riprogrammare Jim per farlo diventare popolare. Peccato il finale assurdo, totalmente svincolato dal contesto. Ma per il resto un’ottima prova. Simpaticissimo il regista (classe 1991), che era presente in sala e ha fatto battute a raffica nella sua autopresentazione.

Brooklyn (John Crowley, Irlanda, 2015)
Avevo altissime aspettative per questo film e la visione mi ha completamente soddisfatta: un melodramma di formazione a tematica migratoria, fortemente incentrato sullo sradicamento e sui contraccolpi emotivi della lontananza. Il tutto raccontato attraverso le emozioni, l’impegno, la tenacia e la forza di una ragazza irlandese (interpretata dalla delicatissima Saoirse Ronan): la fatica di crescere, vivere e amare in un nuovo mondo globale, in una dimensione estesa che obbliga a guardare oltre se stessi e il proprio contesto d’origine per abbracciare una visione più ampia. Quella visione che è poi, con il suo meltin pot, l’essenza stessa di un’America figlia della struggle for life degli immigrati. Poi, ciliegina sulla torta, per una volta gli immigrati italiani fanno una gran bella figura in un film anglosassone. Menzione d'onore al costumista: gli Irlandesi vestono molto male e in questo film, realisticamente, non fa sconti a nessuno. Momento nostalgia quando i protagonisti fanno il bagno a Coney Island, dove sono stata anche io pochi mesi fa. Felice e ansiosa di rivederlo canonicamente al cinema questa primavera. 

John from (Joau Nicolau, Portogallo, 2015)
Ecco, questo è forse il film più particolare che mi sia capitato quest’anno al festival: candidato portoghese al concorso del TFF, è la storia, statica e assolata, dell’estate cittadina di un’adolescente con le turbe ormonali che ammazza il tempo ciondolando per il quartiere con la sua migliore amica, senza molto da fare. Tutto finché non compare, quasi magicamente, un affascinante vicino di casa, ragazzo padre, fotografo-artista specializzato sull’Oceania. Una mostra di foto a tema melanesiano colpisce la fantasia della protagonista, che comincia a dipingersi viso e corpo con colori tribali, nonché a sognare distese di foreste pluviali nel suo quartiere, nuvole tossiche e atterraggi di aerei. Il film assume dunque una dimensione quasi onirica, in cui a riunioni di condominio si alternano visioni di indigeni oceanici. John From è il nome che i melanesiani davano ai cargo degli americani, oggetto di culto e venerazione, che lanciavano loro viveri durante la guerra. Tematica affascinante per chi, come me, ha studiato antropologia oceanica e si interessa da anni di culture dei mari del sud, tuttavia il film, considerato anche nel suo ritmo, risente di una certa lentezza.


E voi? Quali film avete visto al TFF? Quali di questi film attendete con ansia nelle sale? Aspetto i vostri commenti!

martedì 28 luglio 2015

Recensione "L'età sottile" di Francesco Dimitri

Quando e dove l’ho comprato?
L'ho letto in ebook


Quando e dove l’ho letto?
Un po’ ovunque: tra la biblioteca, i mezzi pubblici e la piscina. Ho impiegato pochi giorni, è stato il libro della mia prima distensione vacanziera di quest'anno

Che cosa?
L’età sottile di Francesco Dimitri, autore italiano di genere fantasy, a me finora sconosciuto. Sono stata una lettrice accanita di questo genere in gioventù, per cui ad oggi ne leggo pochissimo (meno di un titolo all’anno) e selezionatissimo, forse perché sono diventata davvero troppo esigente.


Perché?
Perché mi è stato consigliato con calore da due persone della cui opinione letteraria mi fido: uno è il mio amico Mattia/Silver Reflex/Terence Granchester, youtuber letterario, l'altro è Mr Ink, qui la sua recensione. 


Con che cosa?
Da solo: è stata una lettura veloce e totalizzante

Autore: Francesco Dimitri
Titolo: L'età sottile
Editore: Salani
Pagine: 396
Prezzo: 15.90 euro
Anno: 2013
Trama: Quando Gregorio incontra la Magia per prima volta ha quattordici anni, e l’infanzia gli sta scivolando di dosso come l’acqua del mare del piccolo paese del Sud dove va in vacanza. La proposta che gli viene fatta va oltre ogni immaginazione, e l’idea di diventare più potente di qualsiasi mortale sembra decisamente allettante. Se Gregorio accetta, però, dovrà nascondere a chiunque la sua nuova vita; dovrà tacere e mentire alla famiglia e agli amici di un tempo; dovrà abbandonare la sua normalità ed entrare in un mondo dove la parola è azione, e le azioni sono al di sopra di ogni giudizio. Un mondo di cambiamento costante, di pericoli mortali, di tradimento, ma dove l’amicizia è più potente della morte. Originale, spiazzante, crudo, onirico e realistico al tempo stesso, dal più talentuoso e visionario autore del fantastico italiano un sorprendente romanzo di formazione che ci ricorda che ogni adolescente è mago, perché vuole conservare il potere dell’infanzia e trasportarlo integro nell’età adulta.


RECENSIONE


Se decido di leggere fantasy, dopo un'adolescenza in cui ne ho letto (e persino scritto) molto, a 28 anni deve essere per un buon motivo. Il mio buon motivo si chiama Mattia e lo ringrazio moltissimo per questa segnalazione.

Il titolo è un riferimento a quell'età problematica e ambigua che è l'adolescenza: sottile significa fragile, effimero, ma significa anche permeabile, un'età di confine tra un mondo e l'altro, tra un io infantile e un io adulto. La chiave interpretativa di questo libro è l'ambiguità, legata al simbolico-occulto, quanto al reale. 

Non dirò molto sulla trama, anche per non rovinare il piacere della scoperta a nuovi possibili lettori: vi basti sapere che ci sono due ambientazioni principali (la Roma autunnale e un paesino del sud in estate), un adolescente alle prese con il lutto della madre, le turbe ormonali e i primi amori e poi c'è l'incontro con la magia. E tantissime citazioni (implicite ed esplicite) da tutto il panorama fantasy-nerd contemporaneo. 

I riferimenti più frequenti sono quelli alla saga di Harry Potter, citata a più riprese per tutta la durata del romanzo: è interessante come questa storia reinventi e riusi i suoi modelli, con un'alchimia funzionale che ha qualcosa, davvero, di magico. Momenti iconici e temi ripresi, come il tema del lutto e lo sfregio subito da un nemico (il protagonista Gregorio perde un occhio) sono presentati con una consapevolezza superiore, quasi distante, che "se la canta e se la suona", che ti dice "lo so che questo è un cliché, ma guarda come te lo parcheggio bene, ci faccio il balletto attorno, te lo mostro da un'altra angolatura, te lo stropiccio, te lo rovescio". 

In Harry Potter dove siano allocati il bene e il male è quasi sempre perfettamente evidente e riconoscibile, salvo mistici coni d'ombra come il magnifico personaggio di Piton: in questo romanzo, invece, Gregorio fa spesso del male al suo prossimo, le sue motivazioni non sono sempre nobili, il suo fine spesso giustifica dei discutibili mezzi (il protagonista assume droghe a più riprese e arriva persino ad allearsi con una specie di giovane "mafioso" di paese), il suo saltellare su e giù lungo la linea che separa il bene dal male è una danza ammaliante. Siamo sempre davanti a una duplice interpretazione: da una parte la scoperta della magia è un dono, dall'altra una discesa agli inferi; il maestro Levi è una guida, ma anche una personalità ombrosa, che plagia giovani menti. 


La magia è raccontata nella sua natura teorica e pratica, nel suo potenziale dirompente, strettamente legato con l'estasi dei sensi: una delle scene più belle e potenti del libro mostra contestualmente la perdita della verginità del protagonista e la sua iniziazione alla magia con tanto di piscina, tempesta marittima notturna, sangue virginale, pentacoli e cerchi magici, in un tripudio di fulmini e saette, di orgasmo e morte. Detta così sembra un'accozzaglia di elementi kitsch, eppure, credetemi, si tratta di un passaggio davvero ben orchestrato. 

Ovviamente non è un libro perfetto, veniamo dunque a ciò che non mi ha convinto: innanzitutto alcuni dei personaggi sono monocordi, appena abbozzati, probabilmente perché la mole del libro e la sua autoconclusività non consentono di scavare in profondità. 

In particolare penso ai membri del gruppo di maghi che Levi allena: li conosciamo poco, una fra tutti la misteriosa e ispida Elena, i cui misteri si esauriscono in mezza pagina, appena prima della fine; anche Simone e Diana rimangono nell'ombra. Su Gregorio, invece, si può facilmente rilevare come l'autore abbia fin esagerato nella caratterizzazione: il giovane protagonista ha una cultura da nerd nato negli anni '80, con tanto di fissa per Gaiman (che cita a memoria), Dungeons & Dragons, Buffy, Bob Dylan, solo per citarne alcuni. La sua cultura è un crogiolo ricchissimo e un po' impensabile per un adolescente degli anni dieci, il che lo rende un personaggio interessante, ma poco credibile. 

C'è poi una caratteristica che per me non è un difetto, ma è senz'altro una particolarità: non si capisce bene quale sia il pubblico di riferimento. Sicuramente per essere pensato per un pubblico adolescente è un libro piuttosto problematico: vi sono scene ambientate sul "piano astrale" i cui contenuti sono volutamente controversi, perturbanti, per quanto indubbiamente affascinanti. 

E' un libro che fa riflettere e discutere, probabilmente una delle migliori prove fantasy contemporanee del bel paese. Lo stile è preciso e coinvolgente, ti spinge a voltare pagina, tra la forte presa del contenuto e l'indubbia bellezza della forma. Lo consiglio a tutti coloro che amano il fantasy ma gradirebbero leggere finalmente qualcosa di nuovo, che non si prenda troppo sul serio e omaggi i canoni senza copiare pedissequamente. . 

E secondo me è perfetto per l'estate, perché fornisce una buona dose di spunti di riflessione senza annoiare minimamente.

giovedì 23 luglio 2015

Recensione: "Forse qui potrei vivere" di Valeria Fraccari

Quando e dove l’ho comprato?
Mi è stato gentilmente inviato, su mia richiesta, dalla casa editrice, in formato cartaceo


Quando e dove l’ho letto?
A letto e in giro per la città, sui mezzi pubblici


Che cosa?
Qui forse potrei vivere di Valeria Fraccari, della Biblion Edizioni, autrice e casa editrice a me finora sconosciute


Perché?
L’ho visto recensire in toni entusiastici su “La stamberga dei lettori”, blog autorevole, dei cui collaboratori mi fido molto. Ero in cerca di un gioiellino.

Con che cosa?
Insieme a diversi tomi di glottodidattica (non se ne esce…) a Pierre non esiste di Vargas e a Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani.



Autore: Valeria Fraccari
Titolo: Qui forse potrei vivere
Editore: Biblion Edizioni
Pagine: 158
Prezzo: 12 euro
Anno: 2014
Trama: In un liceo di Milano suona la campanella: è l'ultima ora del sabato, la settimana è finita e tutti escono da scuola. Tutti, tranne la professoressa Irene Corti, che quella mattina, in classe, ha letteralmente perso il controllo e il contatto con la realtà. Luca è uno degli studenti di Irene e quella lezione lo ha sconvolto. Anche quando torna a casa, dove lo aspetta la sua difficile storia familiare, non può smettere di pensarci. Nell'arco dei tre giorni in cui si svolge il romanzo, le vicende di Irene e Luca si sviluppano parallelamente, così come dolori e ricordi aprono violentemente varchi nelle esistenze di entrambi, conducendo il lettore nel tempo fragile, intenso e doloroso della scuola e dell'adolescenza.


RECENSIONE

Mi piace pensare di essere una futura insegnante: evidentemente non essere stata ammessa a ben due cicli di percorsi abilitanti di dubbia utilità non ha ancora fiaccato i miei propositi. Nel frattempo ho fatto sporadiche supplenze e corsi di recupero, insegnato italiano L2 agli adulti, lavorato in tutt’altro campo e, tuttavia, nel mio futuro a lungo termine mi vedo in classe, un posto dove ho sempre pensato che mi sentirò bene. Forse perché da studentessa ci stavo tanto bene. 

Queste sono anche, almeno in parte, le motivazioni che spingono la protagonista di questo romanzo, la professoressa Irene, a inseguire il sogno dell’insegnamento, che rimane l’obiettivo principe, prima in potenza e poi in atto, della sua vita. Finché in aula, in un giorno di maggio, non accade qualcosa che rimette in discussione tutto, che la sospinge in una risacca di incertezza e inadeguatezza, un evento spaventoso che la porta a ripercorrere mentalmente tutta la sua vita. 

Un percorso sentimentale fondato su pochi affetti, essenzialmente la figlia Sara e l’amica Bianca, che però negli ultimi tempi ha cominciato a scricchiolare; e tutt'intorno una certa solitudine, tra l’interesse per un collega affascinante, di cui non ricorda il nome, e le giornate scolastiche tutte uguali, via via più pesanti, tra il peso di una colpa inconfessabile e le prime avvisaglie di una crisi vocazionale. 

Contestualmente si sviluppa la vicenda di Luca, allievo di Irene, il solo, forse, a percepire la profondità del disagio della sua professoressa di lettere: lui è un’anima smarrita in una vita famigliare fatta di assenze e non detti. Alla fine sarà l’intersezione tra queste due solitudini a rendere possibile il superamento di un periodo buio per entrambi.

Ecco, ho trovato in questo breve romanzo esattamente quello che mi aspettavo: un piccolo gioiello di bella scrittura, essenziale, puntuale, con belle riflessioni sull’essere insegnanti, sull’essere studenti e soprattutto sull’essere umani. Umani in una dimensione di dialogo con altri esseri umani, in una condivisione di momenti, di saperi e di emozioni. Merita una menzione speciale, senza anticipazioni, il modo in cui la protagonista Irene e la futura migliore amica Bianca si conoscono, ai tempi dell'università, complice una citazione galeotta da Caproni, che poi è quella che dà il (bellissimo) titolo al libro. 

Diciamo che un limite, a livello di percezione soggettiva, può essere che questo libro non mi ha dato nulla di più di quanto mi aspettassi: le aspettative erano alte e sono state ripagate con precisione. Il che mi fa riflettere sull’arma a doppio taglio che possono essere le aspettative: un libro da cui non ti aspetti niente e ti regala un mondo è un’emozione indicibile, un libro che ti suggerisce, già da chiuso, una qualità evidente, per poi “portare a casa il compito” forse, su un piano prettamente edonistico, dà una soddisfazione di tipo diverso, meno entusiastica, più contenuta.

In ogni caso si tratta di un piccolo gioiello che scava in profondità, nella sua semplicità e nella sua estrema e rigorosa coesione. Una bella scoperta. Probabilmente leggerò altro di quest’autrice.

L'AUTRICE



domenica 19 luglio 2015

CinemOssi & Co: Song of the sea, Il racconto dei racconti, Sarà il mio tipo?, Testament of Youth, + Tess dei d'Urbervilles e Disperatamente Romantici

Cari fedelissimi,
mi scuso per i due mesi e passa di assenza: il lavoro e la preparazione di colloqui ed esami vari (alcuni dei quali potrebbero avere importanti ripercussioni sulle mie prossime occupazioni) mi hanno tenuta molto impegnata. Da oggi sono ufficialmente in vacanza e tornerò a scrivere con maggiore regolarità (almeno spero). In questo post voglio segnalarvi un po’ di visioni interessanti, che mi hanno reso questi ultimi mesi molto più sopportabili.


Song of the sea (Tomm Moore, 2014)
E’ un film d’animazione realizzato dal regista irlandese, vincitore dell'Oscar come miglior "cartone", già autore di The secret of Kells (che devo ancora vedere): un autentico capolavoro di estetica e contenuti, una festa per gli occhi e per la mente: leggende irlandesi, ricerca delle proprie radici, storia di formazione condita da un pizzico di magia. Vi sfido a non innamorarvene. Unico cruccio: c’è soltanto in lingua originale con i sottotitoli. Ma ne vale la pena. Procuratevelo. E plauso al distributore che deciderà di portarlo in Italia. Sempre che tale miracolo avvenga.

Il racconto dei racconti (Matteo Garrone, 2015)
Probabilmente vi avevo già detto che, dei tre italianissimi che sono usciti degli ultimi mesi, ho trovato Mia madre di Nanni Moretti una mezza delusione e Youth di Sorrentino piacevole, ma non del tutto riuscito. Ecco, invece Garrone sorprende con un film che segna un unicum nel panorama cinematografico italiano di tutti i tempi e lo fa regalandoci un'opera che è tanto profondamente italiana nel sentire (sia nella scelta letteraria di partenza, Lo cunto de li cunti di Basile, sia nelle splendide location che sono utilizzate) quanto internazionale nell’eleganza della veste e del cast. E profondamente garroniano nei temi prescelti: la deformità, la morbosità, il “mostro” che c’è nell’umano, l’imperscrutabilità delle pulsioni. Bellissimo. L’ho visto al cinema con i miei amici e lo aspetto con ansia in dvd.


Sarà il mio tipo? (Lucas Belvaux, 2014)
Visto al pc a sorpresa e senza troppa convinzione, lo credevo una commedia francese carina e innocua e in effetti tale è la confezione, oltre che l’inizio (professore-scrittore cittadino incontra parrucchiera di provincia, nasce una relazione, tra patemi per la diversità e attrazione). Invece, procedendo verso l’epilogo, si trasforma in qualcosa di diverso, da cui la presunta superiorità intellettuale del professore esce decisamente sconfitta a vantaggio della giovane parrucchiera, ferma, limpida e acuta nel suo pensiero lineare, oltreché inesorabile nelle sue decisioni. Finale amarissimo. Da considerare.


Testament of youth (James Kent, 2015)
Film della BBC tratto dall'autobiografia di Vera Brittain, scrittrice, pacifista e crocerossina durante la Grande Guerra. Una storia di coraggio e tenacia al femminile, uno sguardo obliquo e particolare su un periodo sanguinosissimo del nostro passato, una storia "alternativa" di quei giovani di belle speranze sterminati dalla Prima Guerra Mondiale. Se resistete ai primi venti minuti, che possono erroneamente far pensare a una storia smielata di amori recisi dalla guerra, vi si aprirà un mondo di emozioni forti celebrate in punta di piedi. Personalmente l'ho adorato. Anche questo va visto in inglese, in attesa che LaEffe ce lo mostri in italiano (chissà...)


 

LaEffe

Ho poi scoperto di adorare letteralmente la programmazione (specie quella domenicale) della rete tematica 50 del digitale, LaEffe, gestita da Feltrinelli. Tre le meraviglie che mi hanno tenuto compagnia negli ultimi tempi: la miniserie BBC in due puntate Tess dei d’Urbervilles con Gemma Arterton e Eddie Redmayne nei panni di Tess e Angel (dolente e lancinante quanto il libro) e soprattutto la serie in 6 puntate Disperatamente romantici sulla storia della confraternita dei Preraffaelliti, pittori di genio che sconvolsero con le loro idee la società puritana londinese dell’800. Di questa serie ho apprezzato particolarmente il tentativo di presentare i giovani Millais, Rossetti e Hunt come dei ragazzi di oggi, alle prese con problemi pratici ed emotivi, senza quell’aura di ingessata e inverosimile antichità che spesso affligge questo tipo di produzioni; ricordarci che anche il passato è stato presente giova alla nostra concezione spesso fallace e idealizzata dell’umanità che è passata su questa terra prima di noi. Menzione finale per Io, Jane Austen, trasmesso questa sera, storia degli ultimi mesi di vita dell'autrice: la scelta, piacevolmente poco commerciale, è stata di rappresentarla nella sua lucida pragmaticità, nell'arguzia pungente, nello schietto idealismo appena velato di malinconia che in lei tanto ammiro. 
Uno dei rari i casi in cui vale la pena accendere la tv: sintonizzatevi sul canale 50. Anche voi uomini, anzi, soprattutto voi. Su!


E voi? Cos'avete visto o vedrete quest'estate? Fatemelo sapere. 
Buona estate a tutti, leggete e guardate cose belle. Arriveranno presto recensioni di libri e tante novità.