Carissimi,
innanzitutto mi scuso per
l’assenza: negli ultimi quattro mesi la mia vita è stata decisamente
complicata, tra un viaggio a New York, una
supplenza di italiano molto full time in un professionale per stilisti e l’inizio di un dottorato
di ricerca in linguistica. Spero vivamente di riuscire a conciliare tutti i miei impegni in
modo da ritagliarmi del tempo anche per continuare con i miei articoli. Dunque, nell’ultima
settimana ho avuto modo di vedere un po’ di film al Torino Film Festival di
quest’anno: stavolta non ho fatto l’addetta stampa, ma sono riuscita comunque a
vedere ben sette film.
Anzi, diciamo sei e mezzo. Ora
scoprirete perché. La mia impressione generale è stata più che positiva:
davvero parecchi dei film che ho visto hanno soddisfatto e in certi casi
persino superato le mie aspettative.
Grande attesa per questo
film, che, pur rilevatosi assai diverso da come me l'aspettavo, si è fatto
apprezzare proprio per queste particolarità: la storia principale segue la
presa di coscienza di una placida sottoproletaria, dapprima scettica di
fronte al suffragismo, lavoratrice in fabbrica dall’età di sette anni, sposata
con un uomo altrettanto comune e madre di un bimbo. Già il movimento
suffragista è tema ben raro da trovare nei film, ma che la prospettiva adottata
sia così orgogliosamente “dal basso” lo rende davvero un unicum nel suo genere:
il buon senso, l’altruismo, la tenacia della protagonista (una sciatta quanto
coinvolta Carey Mulligham) rendono lo spettatore partecipe del suo dramma
umano, della forza della sua convinzione nel cercare, per tentativi e con
difficoltà, un nuovo modo, più consapevole, di essere donna, moglie e madre
nella spinosa Inghilterra dell’inizio del XX secolo. I titoli di coda ci
ricordano che il diritto di voto è ancora utopia in tante nazioni nella terra
(e che in Svizzera le donne votano solo dal 1977!!!). Cameo per Meryl Streep
nei panni della vera femminista Emmeline Pankhurst.
Ecco, questo è il film del
festival nei confronti del quale nutrivo meno aspettative, forse perché
l’accoppiata “biopic” e “italiano” molto di rado produce qualcosa di più che
scolastico o scontato, specie se la vita raccontata è quella di un letterato.
Invece vi anticipo che questo si è rivelato il miglior film della rassegna,
almeno tra quelli che ho visto io. Qui protagonista è la poetessa Antonia
Pozzi, milanese, perlopiù ignota anche agli addetti ai lavori: sulle antologie
il suo nome ricorre solo in quanto contemporanea e amica di Vittorio Sereni. Ha
avuto una vita breve, illuminata dal fuoco della poesia e scossa da violenti attacchi
di male di vivere che l’hanno poi portata al suicidio (avvenuto a 26 anni), ma
per il resto, nelle sue esperienze, possiamo riconoscerci un po’ tutti: il
liceo classico, l’amore per il suo professore di lettere, poi l’università, la
tesi su Flaubert, i primi incarichi da insegnante, l’attaccamento ai suoi
compagni di studi, gli amori non corrisposti. Una vita piccola, vissuta in
punta di piedi tra la sua grande casa di Milano e la pace delle montagne sopra
Lecco. Un film fine, coraggioso, con una fotografia incantevole e una regia
davvero elegante (oltreché giovanissima, classe 1986): punti di vista bizzarri
e geniali, come dialoghi sentiti di lontano, dietro le porte a vetri del
soggiorno di Antonia, conversazioni allo specchio e un indugiare sempre
delicato sull’intimità più profonda della protagonista, sorpresa a fare
autoerotismo come a leggere l’Odissea in greco. Il cast di attori non noti, ma
tutti professionisti del teatro, è una scelta vincente per cui questo progetto
meriterebbe applausi a prescindere dal risultato, che è in ogni caso davvero
pregevole. Non vedo l’ora che esca in chiaro (sperando che tale miracolo abbia
luogo e presto) per portarci gli amici, letterati e non.
Una commedia indipendente
giovanilistica americana “che più Sundance di così non si può”: scorretta,
originale, fresca e ben recitata. C’è pure un cancro di mezzo, ma non è un film
sul cancro e sugli adolescenti che muoiono, piuttosto sul saper far fruttare il
tempo e sull’imparare a incanalare la propria atipicità in un percorso di
crescita che sviluppi l’intelligenza emotiva, su come restare speciali senza diventare
per forza degli apatici anaffettivi. Alcune scene sono esilaranti e i
personaggi si distinguono tutti per eccentricità, forse fin troppo. In ogni
caso decisamente godibile.
Uns geht es gut (Henri Steinmetz,
Germania, 2015)
Solitamente, specie se ho pagato
un biglietto specifico, mando giù di tutto e resisto fino alla fine. Qui non ce
l’ho fatta, sono uscita dopo un’oretta. I dialoghi sono agonizzanti e perlopiù
insensati, la trasgressione fine a se stessa dei giovani protagonisti (la cui
occupazione è bighellonare senza meta facendo cose a metà tra lo schifoso e
l’inutile, ma più sul versante dell’inutile) è a dir poco irritante. Dominano
scene al rallentatore, inquadrature su bicchieri che cadono, ragazzi che
orinano, grugniti in una lingua che del tedesco ha poco. Un tentativo poraccio di
teutonicamente scimmiottare Arancia Meccanica, fallito.
Just Jim (Craig Roberts, UK,
2015)
Opera prima del giovane Craig
Roberts, già protagonista del carinissimo Submarine, che qui dirige se stesso e
Emile Hirsch in una commedia adolescenziale surreale ambientata in Galles: il
protagonista è un recluso sociale, di una sfigataggine davvero mai vista sullo
schermo. La sua triste vita solitaria, ritratta nella prima parte del film,
assume dimensioni tragicomiche che sfiorano l’epicità in alcune sequenze (da antologia
quella in cui i genitori sbagliano il numero di anni che il figlio sta per
compiere e per giunta nessuno si presenta alla sua festa di compleanno). Ancora
più divertente e folle nella parte centrale, con la comparsa di un ragazzo
americano “cool”, interpretato da Emile Hirsch, che cerca di riprogrammare Jim
per farlo diventare popolare. Peccato il finale assurdo, totalmente svincolato
dal contesto. Ma per il resto un’ottima prova. Simpaticissimo il regista
(classe 1991), che era presente in sala e ha fatto battute a raffica nella sua
autopresentazione.
Brooklyn (John Crowley, Irlanda,
2015)
Avevo altissime aspettative per
questo film e la visione mi ha completamente soddisfatta: un melodramma di
formazione a tematica migratoria, fortemente incentrato sullo sradicamento e sui
contraccolpi emotivi della lontananza. Il tutto raccontato attraverso le
emozioni, l’impegno, la tenacia e la forza di una ragazza irlandese
(interpretata dalla delicatissima Saoirse Ronan): la fatica di crescere, vivere
e amare in un nuovo mondo globale, in una dimensione estesa che obbliga a
guardare oltre se stessi e il proprio contesto d’origine per abbracciare una
visione più ampia. Quella visione che è poi, con il suo meltin pot, l’essenza
stessa di un’America figlia della struggle for life degli immigrati. Poi,
ciliegina sulla torta, per una volta gli immigrati italiani fanno una gran
bella figura in un film anglosassone. Menzione d'onore al costumista: gli Irlandesi vestono molto male e in questo film, realisticamente, non fa sconti a nessuno. Momento nostalgia quando i protagonisti fanno il bagno a Coney Island, dove sono stata anche io pochi mesi fa. Felice e ansiosa di rivederlo
canonicamente al cinema questa primavera.
John from (Joau Nicolau,
Portogallo, 2015)
Ecco, questo è forse il film più
particolare che mi sia capitato quest’anno al festival: candidato portoghese al
concorso del TFF, è la storia, statica e assolata, dell’estate cittadina di un’adolescente
con le turbe ormonali che ammazza il tempo ciondolando per il quartiere con
la sua migliore amica, senza molto da fare. Tutto finché non compare, quasi
magicamente, un affascinante vicino di casa, ragazzo padre, fotografo-artista
specializzato sull’Oceania. Una mostra di foto a tema melanesiano colpisce la
fantasia della protagonista, che comincia a dipingersi viso e corpo con colori
tribali, nonché a sognare distese di foreste pluviali nel suo quartiere, nuvole tossiche e atterraggi di aerei. Il film assume dunque una dimensione
quasi onirica, in cui a riunioni di condominio si alternano visioni di indigeni
oceanici. John From è il nome che i melanesiani davano ai cargo degli americani,
oggetto di culto e venerazione, che lanciavano loro viveri durante la guerra. Tematica
affascinante per chi, come me, ha studiato antropologia oceanica e si interessa
da anni di culture dei mari del sud, tuttavia il film, considerato anche nel
suo ritmo, risente di una certa lentezza.
E voi? Quali film avete visto al
TFF? Quali di questi film attendete con ansia nelle sale? Aspetto i vostri
commenti!
Sai già. Adesso mi ispira molto anche Brooklyn, di cui non mi avevi parlato, e poi io adoro (e odio da Espiazione) la Ronan. ;)
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